Il teatro di Federico Garcia Lorca e la lotta delle donne

di Lorenzo Spurio*

Quando Federico García Lorca venne assassinato, il sentore di morte veleggiava già da mesi sull’intera Spagna. Le milizie anti-nazionaliste schieratisi in un imprecisabile e assai ampio bando repubblicano da vario tempo si erano rese responsabili di attacchi mirati, saccheggi, violenze e vere e proprie rappresaglie non di rado anche in ambienti religiosi. Molti uomini erano caduti nei primi mesi di quella che si sarebbe ben presto trasformata in una delle più note guerre civili della Vecchia Europa. Se non la più lunga, senz’altro una delle più sanguinose e nefande. Pochi giorni prima in cui il corpo mortale del poeta granadino, come avvinto dalla logica tremenda di chi ha eretto l’odio tra i simili a condizione imprescindibile per una (pseudo)rinascita, recideva ogni legame al mondo naturale e diveniva un corpo ausente (per richiamare una sua espressione impiegata nel Llanto por Ignacio Sánchez Mejías, componimento della caduta e dello struggimento che porta a un sentimento forte di vero nichilismo), García Lorca aveva perso l’amato cognato, Manuel Fernández Montesinos che, quale Alcalde [1] rojo [2] della città di Granada, era ben presto caduto per le atroci vendette dei repubblicani. Un lutto grave, imprevisto per quanto il clima di odi e di violenze trasversali fosse ormai all’ordine del giorno, che colpiva non la Capitale dove si discutevano questioni e dove il Re aveva già lasciato il suo posto, senza abdicare, dalla fondazione della Seconda Repubblica [3], ma nell’ambiente di provincia, in quella Granada del disincanto e dell’idillio che il poeta aveva cantato in opere memorabili quali Suites e Cancionero gitano.

Una Granada nella quale, seppur il poeta abbia mosso i primi passi a contatto con l’ambiente campestre e la profondità di un mondo popolare legato alla vita dei campi ricco nell’oralità e nelle sue tradizioni, doveva risiedere un certo sentimento di mestizia nel Nostro che, infatti, in una poesia parlava della “tristeza remota”, della “tristeza nativa” e di una “infancia intranquila”. Si tratta –possiamo dirlo oggi, tenendo in viva considerazione il suo percorso letterario ed umano – di un’apertura all’universo intimo che il poeta ci permette in chiave lirica, la via espressiva a lui più congeniale, nella quale, però, non facciamo difficoltà a identificare una personalità assai suscettibile e problematica, fortemente introspettiva, in un certo qual senso particolarmente utile anche agli storici e ai biografi per la costruzione di un chiaro identikit attitudinale.

Come si cercherà di osservare in questo scritto, l’intera attività letteraria di Federico García Lorca fu mossa da un grande amore nei confronti della parola, consapevole che in essa risiede un potenziale evocativo e socialmente importante. La letteratura lorchiana ha, infatti, il gusto del semplice: l’ambiente di campagna, le vicissitudini di animali che sembrano dialogare tra loro con estrema verosimiglianza, i rapporti familiari e le logiche di contrasto che si instaurano nel mondo di provincia quando il pettegolezzo e la macchia all’onore fanno capolino, tanto da divenire variabili capaci di tratteggiare il destino dell’uomo.

Nella nutrita letteratura drammaturgica del Nostro –poco nota ma che lo rende uno dei maggiori scrittori per il teatro del secolo scorso- García Lorca pose manifesti alcuni argomenti di non facile trattazione per i suoi tempi con due scopi fondamentali: il primo era la sua convinzione che il teatro non è altro che poesia che “si alza dal libro e si fa umana” [4] e il secondo era la sua compartecipazione sentita alle condizioni di disagio dell’uomo. Celebre sono le sue parole nelle quali afferma che la sua collocazione nella società sarà quella di chi è al fianco dell’emarginato. [5] Ne darà testimonianza con la sua attività letteraria, con il suo animo pacato e sensibile (si ricorra alla letteratura memorialistica a supporto di quanto si sta dicendo per mezzo della quale è possibile definire l’autore non in quanto letterato ma in quanto uomo nella ricchezza delle sue doti e della spiccata carità).

In campo teatrale García Lorca dimostrerà, sfidando a testa alta, l’ideologia reazionaria che avrebbe ben presto preso l’intero controllo e azzerato posizioni differenti, quanto il suo legame con l’altro (ciò che oggi noi definiremmo con una definizione semplicistica e pregiudiziale di “diverso”) fosse sentito e radicato nella profondità delle vedute, nell’empatia relazionale, nella grande fiducia in un mondo di condivisione. García Lorca non è stato uno dei tanti utopisti a sperare che si potesse ottenere la fine delle barbarie in un paese, come il suo, dove la lotta armata non era che iniziata. Non è stato neppure un qualunquista, uno di quelli che reputa a seconda delle convenienze e delle situazioni che si prospettano, di prendere determinate posizioni o di favorire il suo avvicinamento verso date tendenze dalle quali distanziarsi, magari, in un secondo momento. La natura spiccatamente solidale dell’uomo, il suo fedele asservimento al mondo popolare custode di arcani e leggi della natura, l’erudizione permessa anche con la partecipazione alla Residencia de Estudiantes di Madrid, il suo legame stretto e inscindibile con la musica popolare (Manuel de Falla) e il folklore andaluso (la tradizione gitana), l’affratellamento al mito delle acque, la religiosità stemperata ma viva, come possibilità, la profonda amicizia con Fernando de los Ríos (1879-1949) [6], sono solamente alcuni degli elementi che, assieme all’idea-genialità del teatro itinerante della Barraca, fece di lui un uomo distintamente di sinistra, vicino alle intenzioni e vedute di una compagine politica che in Spagna, in quel periodo era assai complicata perché suddivisa in partiti piccoli, spesso senza guide carismatiche.

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Sebbene nel corso della storia ci fu, e persiste ancora tutt’oggi, chi sostiene che l’autore non fu di sinistra, né rojo pericoloso (come ebbero a dire membri della Falange che poi lo assassinarono) non è possibile affrontare discorsi relativi alla figura del poeta se non si prescinde da questo. L’autore non era, infatti, estraneo ad attività portate avanti da ambienti collegati con la sinistra (di matrice marxista, addirittura), se ne ha prova dalla firma che mise in numerosi manifesti che vennero stilati all’epoca contro l’autorità fascista nel Paese e fuori di esso. Si ricordi, infatti, la sua firma nel manifesto che molti intellettuali sottoscrissero contro il dispotismo di Salazar nel vicino Portogallo. Per questa filiazione a una ideologia avversa e assai pericolosa, quella comunista, l’autore venne ben presto stigmatizzato e fatto allontanare dagli ambienti in cui la classe conservatrice, forte del prestigio che andava acquisendo, non reputava più idonea la sua presenza. La stessa Barraca, il suo progetto ideato assieme a Eduardo Ugarte volto a portare nei piccoli centri di campagna il teatro direttamente al aire libre, come avveniva un tempo, venne malvisto dalle destre che videro in questa attività un’intenzione volta al proselitismo comunista.

Per queste ragioni (si potrebbero portare molti altri esempi rievocando momenti documentati) García Lorca da amico degli emarginati e da emarginato lui stesso come veniva considerato essendo omosessuale, divenne ben presto nemico pubblico. La sua personalità, così pronunciatamene diversa ed eversiva, che non si uniformava al codice di condotta stabilito dalla classe fascista, immorale e spregiudicata era il segno di un’erba marcia appena nata che andava subito estirpata affinché il prato buono non avesse a soffrirne. Se prima erano lo sprezzo e il fastidio che riceveva dagli ambienti di destra ora divenne sorvegliato speciale perché, appunto, ritenuto mezzo efficace di una propaganda politica che non gli avrebbero consentito di fare. Divenuta di pubblico dominio la bassa considerazione che le destre avevano di lui, che lo consideravano un deviato, un culattone e una spia russa, l’evento probabilmente più deprimente per lo stesso accadde con la prima di Yerma nel dicembre del 1934 al Teatro Español di Madrid.

In quella circostanza la platea perbenista di una classe sociale benestante ma abietta protestò con foga sia all’apertura che durante la rappresentazione. Gli sfottò, tutti puntati a denigrare la condizione di omosessualità del Nostro, provenivano da esponenti di una destra arcaica e ottusa, strenui difensori di immagini sacrosante come il rispetto e l’onore che, in qualche modo, l’autore con l’opera aveva messo in discussione. L’attrice che impersonificava Yerma, l’amica Margarita Xirgu, non venne risparmiata da offese pubbliche nelle quali le urlarono di essere lesbica (fatto sul quale tutt’oggi rimane un certo mistero essendosi la donna sposata senza avere figli sebbene esistano documenti di un nipote che dicono di non aver mai saputo che la donna lo fosse). Federico e Margarita non si lasciarono toccare più di tanto da ciò che di antipatico venne loro urlato e l’indomani nei vari giornali uscirono recensioni dal tono molto diverso. Tutti i giornali vicini alla destra denunciarono pubblicamente la gravità di un’opera come Yerma descrivendola disdicevole e immorale, non solo per il bene comune, ma anche per la Chiesa e perché minacciava il senso arcaico e devoto della tradizione. L’avvenimento ebbe, però, una portata talmente rumorosa che in qualche modo segnò in maniera molto netta lo spesso periplo di odi e nefandezze alle quali il poeta era stato sottoposto negli ultimi mesi.

Dopo aver messo in scena il personaggio di Mariana Pineda, un’eroina granadina che, mossa dall’amore per il suo uomo sfida l’autorità del Re e preferisce morire piuttosto che cedere ai suoi ricatti, e Yerma, l’immagine della donna insoddisfatta che impazzisce a causa della mancanza di un figlio e al clima pesante di indifferenza e sottomissione da parte del marito finisce per ucciderlo, la società spagnola non era ben disposta ad accettare altre rappresentazioni che scenicamente infangavano la morale e distruggevano i pilastri sui quali nel tempo si erano conservati, in maniera assai gretta e obsoleta, il senso della famiglia, il rispetto.

L’autore nel frattempo riuscirà a comporre La casa de Bernarda Alba, un dramma rurale che solitamente viene considerato come il terzo capitolo di quella trilogia drammatica della terra di Spagna. Non riuscirà, però, a vederla rappresentata perché verrà catturato e giustiziato. In questa opera l’autore proponeva un altro personaggio scandaloso (agli occhi dei conservatori), quello della giovane Adela che, non accettando le ferree restrizioni della tirannica madre, riesce ad amare di nascosto un uomo.

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La donna che García Lorca dipinge con queste sue opere non è tanto una donna focosa che ricerca spasmodicamente l’atto sessuale e dunque il soddisfacimento a un bisogno effimero, quello del piacere, ma è una donna molto profonda che crede nel giuramento d’amore al quale non è disposta ad attuare deroghe. Per questo Mariana Pineda giunge a mettere in pericolo la sua persona affinché possa mettere in salvo l’uomo che ama, un cospiratore, ma alla fine morirà lei stessa per aver permesso la congiura e non accetterà di accondiscendere agli interessi sessuali del Alcalde del Crimen che avrebbe potuto concederle l’amnistia. La morte è preferibile all’onore. L’annullamento del corpo è preferibile alla sua contaminazione. Il diritto a decidere vince sull’obbligo di sottostare ai potenti. Per questo Adela non manca di far valere le sue ragioni in una casa dove la luce non entra mai e sembra un monastero di clausura. La vedremo appellarsi alla madre, controbatterla, e tenerle testa anche se non riesce ad uscire da quel regno delle tenebre perché è la società stessa della quale l’autore ci parla a non essere ancora aperta al nuovo, all’esigenza di un mondo giusto ed equanime che garantisca diritti e una pari considerazione per la donna. Se Adela al termine dell’opera muore lasciando un dolore che tale non è e che presto verrà rimpiazzato dalle stanche ritualità delle sorelle, quest’ultime sono però consapevoli (per lo meno Martirio) che lei è stata più fortunata di loro (Dichosa ella). Fortunata non solo perché è riuscita ad amare un uomo (che è il desiderio che tutte hanno), ma soprattutto per esser stata talmente saggia e volitiva nel contrastare la madre, con foga ed astuzia, cosa che loro non hanno.

Di Yerma gli opinionisti legati all’ideologia reazionaria non fecero che sottolineare l’immoralità e la perversione del personaggio femminile sebbene la donna, contrariamente a tutti i noiosi avvertimenti del marito per tutto il corso dell’opera, non faccia mai nulla di disdicevole. Neppure quando una vecchia strega le profetizza che per poter avere un figlio forse è meglio che si faccia mettere incinta da un altro Yerma riesce a provare soddisfazione. Sebbene aneli in maniera spropositata un figlio e questa mancata maternità sarà la causa della sua pazzia, la donna non è capace –a differenza di Adela che rappresenta il personaggio femmine più ribelle- di contravvenire al patto dell’onore. Ossia esclude a priori la possibilità di un tradimento coniugale per perseguire il suo scopo di maternità perché ciò –sia che la notizia si diffonda che rimanga nota solo a lei- rappresenterebbe un affronto vergognoso nei confronti del suo codice di rispettabilità, del suo onore, mostrandosi, dunque, a differenza di Adela, una donna che sente molto il disagio della sua mancanza ma che non ha la forza o l’intraprendenza per concretizzare le sue volontà.

Le tre donne, da antri di dolore non espiato, da persone private di affetti e considerazioni, diverranno tre vittime sacrificali del potere patriarcale e dittatoriale: Mariana Pineda verrà giustiziata per esser stata una cospiratrice, Adela si suiciderà dopo aver saputo la falsa notizia della morte del suo amante e Yerma strangolerà suo marito divenendo al contempo uxoricida e infanticida del figlio che non ha mai avuto e che, uccidendo il suo compagno, di fatto non potrà mai avere.

Tre storie di donne sole e tormentate dove la solitudine e il tormento sono compagne ataviche di un contesto dominato da atteggiamenti pregiudiziali, potenti tabù, pettegolezzi, dicerie e voci del popolo che, come un grande ed unico personaggio, contribuisce nettamente a scrivere, in maniera assai tragica e fatalistica, i destini delle nostre. Ciò che di crudele accade, accade perché non può accadere nulla che edulcori la situazione. Il potere patriarcale, la carica di virilità e di machismo dell’uomo non possono essere contraddette né annullate, la donna deve conservare la sua posizione di domestica relegando la sua esistenza alla casa e alla prole (laddove ci sia), ma ciò diviene assai più limitante per il fatto che la casa, che è il solo ambiente a lei concesso di abitare, è spesso il covo intestino di odi, incomprensioni e indifferenze che non le permettono di essere ascoltata, capita o interpellata in maniera sana e senza un tono minaccioso.

Se García Lorca non fosse stato ucciso avrebbe di sicuro continuato imperturbabile il percorso già iniziato ossia quello di occuparsi degli emarginati, di dar voce col suo talento alle esigenze represse di chi, non avendo potere e non essendo un uomo, nella sua società viene silenziato o redarguito. Sappiamo infatti che aveva iniziato l’opera I sogni di mia cugina Aurelia della quale ci rimangono poche parti e dove, tra l’altro, si delinea un rapporto di un ragazzino che desidera come sua fidanzata una donna a lui ben più matura. Ben intuiamo, pur non sapendo molto sull’intera storia dell’opera che stava scrivendo, che una scena come questa, nella quale semplicemente (forse anche infantilmente) un ragazzo si mostra attratto e interessato a una donna a lui maggiore sarebbe stata interpretata dall’ambiente reazionario spagnolo estremamente pericolosa, sregolata ed immorale. Un po’ come lo sarebbe stato il dramma che avrebbe scritto incentrando la vicenda attorno a un fenomeno di incesto. Opera alla quale sembra che García Lorca non lavorò mai, se non abbozzando un possibile titolo, a causa della sua prematura morte.

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[1] Sindaco

[2] Il sindaco apparteneva al partito socialista che, a differenza di quello spagnolo che non contò mai grandi partecipazioni, rappresentava una delle anime principali del bando republicano.

[3] Com’è noto il Re, Alfonso XIII, lasciò il Paese senza abdicare nel 1931 quando venne proclamata la Seconda Repubblica. La guerra civile combattuta dal 1936 al 1939 portò al potere Francisco Franco proclamatosi Generalissimo e Capo delle Forze Armate. Quando Franco, ormai anziano, scelse la reggenza per la Spagna dopo che sarebbe morto, indicò Juan Carlos, nipote di Alfonso XIII, quale suo successore. Alla morte del Generalissimo, nel 1975, il potere passò nelle mani di Juan Carlos che “restaurò” la monarchia e divenne Re Juan Carlos I.

[4] “El teatro es la poesía que se levanta del libro y se hace humana. Y al hacerse, habla, grita, llora y se desespera. El teatro necesita que los personajes que aparezcan en la escena lleven un traje de poesía y al mismo tiempo que se les vean los huesos, la sangre. Han de ser tan humanos, tan horrorosamente trágicos y ligados a la vida y al día con una fuerza tal, que muestren sus tradiciones, que se aprecien sus olores, y que salga a los labios toda la valentía de sus palabras llenas de amor o de ascos”.

[5] “En este mundo yo siempre soy y seré partidario de los pobres”.

[6] Uomo politico socialista, fu più volte ministro nei governi della Repubblica. Federico era profondamente legato a lui e ne stimava le qualità di grande pedagogista, ambito per il quale fu uno dei principali fautori di un nuovo modello di insegnamento, una vera e propria riforma che svecchiò il sistema educativo atrofizzato della Spagna tradizionale imbevuta di religione. Rappresentò uno dei bersagli principali della Falange e dei nazionalisti durante il conflitto civile tanto che qualcuno arrivò a sostenere che l’uccisione di García Lorca fu uno strumento per colpire lo stesso Fernando de los Ríos che, a differenza del poeta, era un politico e dunque un uomo pubblicamente schierato con le sinistre.


L’articolo completo può essere letto su La macchina sognante, una rivista di scritture dal mondo. Ogni settimana Frontiere News pubblica un saggio selezionato dalla redazione de La macchina sognante.


IMG_0728-780x1024Lorenzo Spurio è nato a Jesi (AN) nel 1985. Per la poesia ha pubblicato le sillogi Neoplasie civili (2014) e Le acque depresse (2016). Ha curato le antologie Borghi, città e periferie: l’antologia del dinamismo urbano (2015), Risvegli: il pensiero e la coscienza. Tracciati lirici di impegno civile (2015) e Convivio in versi. Mappatura democratica della poesia marchigiana (2016) Per la narrativa ha pubblicato le raccolte di racconti Ritorno ad Ancona e altre storie (2012), La cucina arancione (2013) e L’opossum nell’armadio (2015). Per la critica letteraria ha pubblicato Jane Eyre, una rilettura contemporanea (2011), La metafora del giardino in letteratura (2011), Flyte & Tallis: Una analisi ravvicinata di due grandi romanzi della letteratura inglese (Espiazione di Ian McEwan e Ritorno a Brideshead di Evelyn Waugh) (2012), Ian McEwan: sesso e perversione (2014) e Il sangue, no. L’aporia della vita in ‘La ballata di Adam Henry’ di Ian McEwan (2015). Per la saggistica nazionale, ha pubblicato uno studio sulla poesia italiana contemporanea: La parola di seta. Interviste ai poeti d’oggi (2015).

Nel 2011 ha fondato la rivista online di letteratura «Euterpe». È Presidente del Premio Nazionale di Poesia “L’arte in versi” – Jesi e Presidente di Giuria nei premi letterari “Città di Fermo”, “Città di Porto Recanati”, “Poesia senza confine” (sez. dialetto) di Agugliano. E’ stato finalista alla XXVII edizione del Premio di Letteratura Camaiore – Opera Prima con Neoplasie civili (2015) e il 1° premio per la poesia singola al Concorso Internazionale “Città di Ancona” organizzato dalla Associazione “Voci Nostre” (2016). Sulla sua produzione hanno scritto Corrado Calabrò, Ugo Piscopo, Antonio Spagnuolo, Ninnj Di Stefano Busà, Umberto Vicaretti, Sandro Gros-Pietro, Franco Pastore ed altri.


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