Il lato oscuro dell’attivismo da tastiera

di Ramzy Baroud – Middle East Monitor

L‘attivista italiana stava fremendo. Come se la sua carriera di mediattivista dipendesse da quella foto. Come se il viso sconsolato di quel bambino e le sue tante eruzioni cutanee non fossero già abbastanza esplicite. No, lei aveva bisogno di carpire il massimo della miseria umana, così da poter ottenere una foto perfetta per Instagram.

Diede quindi al piccolo un secchio pieno di pietre dell’arido deserto giordano, non lontano dal confine con la Siria; lui trasportò il pesante carico e si mise in posa.

Il ragazzo, la sua famiglia e molte altre persone vivevano lì, in mezzo al nulla, nelle loro tende. Il campo profughi era definito ‘informale’. Di conseguenza non veniva consegnata acqua o elettricità, non vi erano neppure rifornimenti regolari di cibo, per quanto scarsi fossero. Lì vicino c’era un’autostrada, sulla quale avvenivano delle corse clandestine; i rifugiati riuscivano a sopravvivere proprio grazie a quello che i piloti buttavano dal finestrino.

Ma la malnutrizione non era l’unico nemico. Non avere acqua significava anche non potersi lavare, e tutti i rifugiati siriani nel campo profughi informale avevano in comune varie malattie della pelle.

Per non far volare via le tende, i rifugiati avevano messo dei secchi contenenti pietre in cima ai puntelli di legno. Erano fondamentali, soprattutto durante le violente tempeste di sabbia.

Gli ‘attivisti’ fecero il pieno di fotografie. Senza una ragione particolare, se non quella di esibire la loro solidarietà sui social media accompagnate da emoticon e frasi vuote e banali, come: “Per favore, fate qualcosa”, seguita da una faccina arrabbiata, oppure “I bambini hanno bisogno di noi”, seguita da una faccina triste che piangeva, e così via.

Come previsto, i loro contatti approvarono le loro frasi vuote, esaltando il coraggio, l’eroismo e la grandezza della persona che aveva scattato la foto. Anche se in realtà gli “attivisti” non avevano fatto nient’altro se non gonfiare la loro autostima, ferire la rispettabilità di rifugiati dignitosissimi e   vendere loro un sacco di false aspettative, mentre continuavano ad sperare la salvezza dalle loro tende nel deserto.

Il confuso ragazzino siriano, che deve aver partecipato a quella parodia nella speranza di ricevere un panino o addirittura un pezzo di cioccolata, trasportava il pesante secchio di sassi in modo che l’ “attivista” italiana potesse scattare una foto che nient’altro era se non la personificazione della disperazione. E a quella foto impeccabile sarebbe seguito un bel tour sul Mar Morto e in altre località turistiche giordane, all’insegna del divertimento.

Fu una mia amica, amareggiata da quell’ostentazione di disumanità, a raccontarmi questa storia. Anche mi sentii afflitto, ma non sorpreso. Conosco fin troppo bene quel tipo di “attivismo”. Ne fui sopraffatto da bambino, in un campo profughi palestinese; ne fui disgustato durante i miei primi reportage in Iraq e Libano; ne fui allarmato, diversi anni dopo, nel ruolo di scrittore.

Questa scena è avvenuta soltanto pochi giorni fa, ma si tratta di una realtà ricorrente. Questi “attivisti” – soprattutto occidentali – cercano nel Medio Oriente (e in tutto il mondo) una tregua dal loro mondo consumistico e spesso noioso. Nel loro rapporto con le crisi umanitarie si immaginano dei salvatori che trasportano il “Fardello dell’uomo bianco” ovunque essi vanno. Spesso consci, se non addirittura orgogliosi, del loro privilegio e del loro senso di responsabilità.

Ovviamente ci sono dei veri operatori umanitari, che hanno uno scopo chiaro e un’inconfondibile consapevolezza di ciò che stanno facendo, in cui la promozione di se stessi trova poco spazio. Ma ci sono molte altre persone che non hanno un obiettivo ben definito, ma un interesse passeggero dettato dal senso di avventura, dall’opportunità di alleggerirsi dal fastidioso senso di colpa che si portano addosso.


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Sanno bene che le radici del conflitto in Medio Oriente deriva dal colonialismo del 19esimo e 20esimo secolo. Più recentemente, sanno che la guerra degli Stati Uniti in Iraq ha distrutto il Paese e destabilizzato l’intera regione per gli anni a venire. Sono pienamente consapevoli delle orrende implicazioni dell’interventismo occidentale – anche nei casi spacciati per interventi “umanitari” – in situazioni quali quella libica o siriana. La tragedia in corso nello Yemen, descritta dai media con un mero conflitto interno tra arabi, ha le sue radici anche nella cosiddetta “guerra al terrore” degli Stati Uniti, che ha ridotto il Paese a brandelli, indebolendo la sua coesione interna.

Ma per molte persone questi discorsi sono troppo disordinati, troppo complicati, troppo “politici”. È molto più semplice definirsi “attivisti” e scattare un migliaio di fotografie a vittime di guerra, lontani dal rispondere delle proprie responsabilità morali.

È rischioso parlare di “responsabilità morale” personale e collettiva, perché va oltre l’ambiguo senso di “colpa” che – ingannevolmente – attribuisce la responsabilità della guerra a tutti, indistintamente; propone piuttosto di prendere una posizione, di mobilitarsi, di fare pressione politica e di intraprendere azioni concrete.

Molte persone hanno dato al cosiddetto “attivismo” una pessima reputazione, al punto che lo stesso termine è ormai diventato privo di significato.

Alcuni usano l’ “attivismo” come piattaforma per proporre nozioni politiche ed ideologiche preesistenti, incapaci di uscire dal limite delle idee acquisite per sentito dire e non per esperienza diretta.

Per loro il titolo di “attivista”, che si sono attribuiti loro stessi, è auto-validante ed è spesso usato per far tacere coloro che osano avere idee differenti.

Altri si ergono a salvatori – che ad esempio salvano i bambini del Medio Oriente – ma si guardano bene dal prendere una ferma posizione politica contro i propri governi e le loro colpe nelle attuali guerre e tragedie umane.

Forse potrebbero non esserne pienamente consapevoli, ma questo tipo di “attivista” porta avanti l’eredità della poesia “Il fardello dell’Uomo Bianco” di Rudyard Kipling:

“Raccogli il fardello dell’Uomo Bianco – Disperdi il fiore della tua progenie – Obbliga i tuoi gigli all’esilio – Per assolvere le necessità dei tuoi prigionieri”

L’impegno umanitario non è un’opportunità per fare delle foto; non è una vacanza; non è un’avventura; non è un modo per scaricare la tensione o per sconfiggere il senso di colpa; non dovrebbe essere un’espressione di egemonia culturale, né tantomeno essere guidato da un senso di superiorità e deve evitare ad ogni costo di vendere false speranze.

Un vero attivista umanitario è colui che è in grado di fare la differenza nella vita degli altri. Mostra rispetto verso le varie sensibilità culturali, agisce in modo equilibrato in base alla consapevolezza della propria responsabilità morale, è in grado di leggere adeguatamente il contesto politico ed ha il coraggio necessario per prendere una posizione contro chi è responsabile della guerra e di altre tragedie collettive.

Molto probabilmente la foto di quel bambino siriano con il secchio pieno di sassi ha fatto il giro dei social, deliziando l’ego di molti “attivisti” da tastiera.

Ma è ancora più probabile che quel bambino abbia ancora fame e aspetti ancora il suo salvatore.

(Romana Rubeo ha contribuito alla stesura di questo articolo)


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