di Riccardo Bottazzo
Porta un nome pesante, Berta Cáceres. Lo stesso nome di sua madre, uccisa con otto colpi di pistola dopo averle spezzato braccia e gambe per aver difeso la sua comunità indigena honduregna dalla devastazione procurata dalla privatizzazione dell’acqua e dalla realizzazione di una diga.
Lo stesso nome di sua nonna, anch’essa attivista per i diritti civili e l’ambiente, e prima sindaca donna dell’Honduras. “È una tradizione di famiglia. Lo facciamo per ricordarci che le battaglie proseguono anche dopo di noi e che non ci si deve fermare. Mai”.
Ho incontrato Bertita a Ferrara, in occasione del festival di Internazionale. Abbiamo parlato in uno di quei preziosi giardini, nascosti dentro gli eleganti palazzi rinascimentali, che si trovano solo nella città che fu di Lucrezia Borgia e che – nessuno lo crederebbe mai! – è una delle più verdi d’Italia. Ci siamo seduti, intanto che scendeva la sera, sull’antica vera di un pozzo, dopo una sua applauditissima conferenza, ed abbiamo parlato. Sorrideva come solo le ragazze del Centro America sanno sorridere ad una persona che non hanno mai visto prima. Aveva i lunghi capelli sciolti e uno zainetto da ragazzina sulle spalle. Mi ha confessato di essere un po’ stanca. Il Cica (Collettivo Italia Centro America) ha organizzato un vero e proprio tour de force tra incontri, partecipazioni a programmi radio e interviste. Io le ho detto che non volevo trattenerla ancora ma lei non ha voluto sentir ragioni. Bisogna fare quello che va fatto, mi ha spiegato. A tutti i costi. Stanchezza o no. È venuta in Europa per denunciare quanto succede in Honduras e non voleva, non poteva perdere nessuna occasione. C’è gente che non molla mai. Gente che fa la storia e le rivoluzioni. E Bertita, come sua madre Berta, come sua nonna Berta, è una di queste.
Prima di accendere il registratore – gesto che continuo a considerare invadente – le ho chiesto di lei, di come vive. Mi ha raccontato che è tornata dall’Argentina dove sua madre l’aveva spedita per metterla al sicuro, quando aveva capito che il suo nome era in cima alla lista degli avversari da eliminare, ed era tornata in comunità per portare avanti la battaglia contro la diga del Proyecto Hidroeléctrico Agua Zarca portato avanti dalla Desa, Desarrollo Energético Sociedad Anónima.
Per gli indigeni non ci sono sbocchi scolastici in Honduras, così Berta sta seguendo una scuola rurale messicana per diventare maestra. Sì, avete capito bene. Una di quelle scuole rurali come quella di Ayotzinapa. Mi viene da pensare che quando i militari messicani le definiscono “nidi di guerriglieri” e “covi di bolscevichi”, hanno pure ragione!
Parlami da tua madre. Non è la sola persona che è stata uccisa in Honduras per aver difeso il diritto all’esistenza degli indigeni. Eppure solo lei è riuscita a superare i confini del Centroamerica e a far sentire la sua voce alla comunità internazionale. Cosa aveva di più?
Hai ragione. Molte persone sono morte nella battaglia contro le concessioni idriche e le attività minerarie nel mio Paese, prima di mia madre e anche dopo. Mia madre era una voce delle tante ma era una voce forte all’interno dei movimenti e capace di farsi sentire anche nel Governo. Non è un caso che sia stata messa a processo due volte e anche messa in prigione con l’accusa di aver danneggiato l’immagine della Desa. Un… “crimine” per il quale nel mio paese si va in galera! Lei contava molto sul sostegno della comunità internazionale per le sue, per le nostre battaglie. Pensava che questo fosse l’unico modo per superare quel muro di omertà costruito dall’alleanza tra il capitale e la politica, tra le multinazionali e il Governo.
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Quando ha vinto il premio Goldman dedicato agli ambientalisti in prima linea, tua madre ha pronunciato una frase che mi ha colpito molto: “Despertemos, humanidad”. Svegliamoci, umanità. Non ha detto “svegliatevi” ma “svegliamoci”. Eppure lei, “sveglia” lo era da un pezzo!
Lei era così. Si sentiva fortemente parte di una comunità. Che era, per prima cosa, quella degli indigeni lenca, ovviamente, ma, proprio in quando indigena si sentiva anche parte di una comunità più grande che è quella dell’intera popolazione della terra. Aveva subito molte discriminazioni, nella sua vita. In quanto donna, in quanto indigena. Per questo lottava per un mondo che non escludesse nessuno e che rispettasse la natura e i beni che sono di tutti.
Per la polizia, l’assassinio di tua madre è stata una rapina finita male. I presunti criminali sono stati arrestati. Ma tu continui a chiedere giustizia.
L’omicidio di mia madre è stato un omicidio politico. La criminalità comune non c’entra nulla. Lo si evince anche dalle modalità con il quale è stato compiuto. Noi continuiamo a chiedere giustizia perché non ci basta, non ci può bastare l’arresto degli esecutori. Vogliamo che venga riconosciuta e punita anche la paternità intellettuale dell’omicidio. Vogliamo che sia smascherata la cultura criminale a tutti i livelli, sia quello del Governo che quello delle banche e delle finanziarie, che è la vera mandante degli assassini. Questa è la sola giustizia che vogliamo per quello che altro non è che un crimine di Stato.
Cosa possiamo fare per contribuire alla tua battaglia?
Qui in Italia ho conosciuti tante persone che, come in Honduras, combattono giornalmente per difendere la terra, l’acqua, i boschi e le montagne da un capitalismo sempre più aggressivo. Continuate in quello che state facendo, ciascuno con la propria creatività e i propri metodi, tenendo conto che facciamo tutti parte della stessa comunità, in Europa come in America. E che combattiamo tutti la stessa battaglia. Mia madre era la voce di un popolo ma parlava a tutta l’umanità. Chiedeva un mondo aperto, più giusto e migliore. Un mondo dove tutti, e non soltanto una parte della popolazione, potessero vivere con dignità. Per questo gridava “Despertemos, humanidad”. E noi non ci fermeremo sino a quando non lo avremo raggiunto, questo nuovo mondo.
Profilo dell'autore
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Giornalista professionista e veneziano doc. Quando non sono in giro per il mondo, mi trovate nella mia laguna a denunciare le sconsiderate politiche di “sviluppo” che la stanno trasformando in un braccio di mare aperto. Mi occupo soprattutto di battaglie per l’ambiente inteso come bene comune e di movimenti dal basso (che poi sono la stessa cosa). Ho lavorato nei Quotidiani dell’Espresso (Nuova Venezia e, in particolare, il Mattino di Padova). Ho fatto parte della redazione della rivista Carta e sono stato responsabile del supplemento Veneto del quotidiano Terra. Ho all’attivo alcuni libri come “Liberalaparola”, “Buongiorno Bosnia”, “Il porto dei destini sospesi”, “Caccia sporca”, “Il parco che verrà”. Ho anche curato e pubblicato alcuni ebook con reportage dal Brasile pre mondiale, dall’Iraq, dall’Algeria e dalla Tunisia dopo le rivoluzioni di Primavera, e dal Chiapas zapatista, dove ho accompagnato le brigate mediche e un bel po’ di carovane di Ya Basta. Ho anche pubblicato racconti e reportage in vari libri curati da altri come, ricordo solo, gli annuari della Fondazione Pace di Venezia, il Mio Mare e Ripartire di FrontiereNews.
Sono direttore di EcoMagazine, sito che si occupa di conflitti ambientali, e collaboro con Melting Pot, FrontiereNews, Global Project, Today, Desinformemonos, Young, Q Code Mag, il Manifesto e lo Straniero. Non riesco a stare fermo e ho sempre in progetto lunghi viaggi. Ho partecipato al Silk Road Race da Milano a Dushanbe, scrivendo reportage lungo la Via della seta e raccogliendo racconti e fotografia in un volume.
Non ho dimenticato la formazione scientifica che ho alle spalle e, quando ho tempo, vado a caccia di supposti fantasmi, case infestate o altri "mysteri" assieme agli amici del Cicap, con il quale collaboro per siti e riviste.
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