di Ahmad Ejaz
Dal 5 al 7 ottobre la Città del Vaticano ha organizzato il primo convegno internazionale su Sport at the Service of Humanity. Nell’aula Paolo VI allenatori, atleti e clero si sono confrontati su sport e fede. È qui che Maria Toorpakai Wazir, campionessa mondiale di squash, racconta per la prima volta, in lingua urdu, la sua vita, in un’intervista senza freni. Ventisei anni, figlia di un uomo coraggioso di etnia pashtun, viveva con la sua famiglia in Waziristan, terra fertile e talebana.
Maria, donna dal nome impegnativo, snocciola la sua storia fatta di ribellione, voglia di libertà e ricerca di giustizia. Fin da quando aveva quattro anni la sua “diversità” era stata notata dai suoi genitori, vittime, loro malgrado, di una cultura pregressa, che vuole prima le bambine, le ragazze e poi le donne strette nelle maglie di tradizioni arcaiche. Maria taglia i suoi capelli, brucia i suoi vestiti e inizia ad indossare gli abiti del fratello, comincia a giocare a calcio, a far volare gli aquiloni, a tagliare la legna, a undici anni impara a sparare con il fucile.
La sua sfida era combattere quella cultura maschile e misogina che non la voleva libera di essere se stessa. Piena di energia e voglia di vivere incontra la sua grande passione, lo squash. Per anni continua a vestirsi da maschio pur di uscire da casa e continuare a giocare. Ma verso i sedici anni il sogno si interrompe, in seguito alla presentazione di un certificato per partecipare a gare ad altissimo livello, la sua identità viene svelata. Iniziarono così, persecuzioni, molestie e discriminazioni.
I talebani non volevano che Maria giocasse in pantaloncini, che muovesse il suo corpo e che fosse felice. Per proteggerla il padre la chiuse in casa, spegneva le luci per evitare attacchi dall’esterno, non le permetteva di andare in bagno, che era in cortile e quindi visibile.
Per lei e la sua famiglia il mondo precipitò. I talebani si accanirono sull’amatissimo padre, che fu torturato e rinchiuso in una clinica psichiatrica. E con il titolo di campionessa del Pakistan, Maria rimase sepolta in casa, per quattro anni.
Ma Maria non è una che si arrende e nel buio della sua stanza iniziò a scrivere a tutti i club di squash del mondo, fino a quando, Jonathan Power, campione mondiale canadese, non gli rispose. Era il 2011 quando Maria volò in Canada. Ora, dopo cinque anni di permanenza a Toronto, serena dichiara: “Ho scoperto la libertà e l’umanità”. E ammette che “non tutti i pashtun sono talebani e non tutti i pakistani sono terroristi. Grazie all’aiuto di mio padre sono stata campionessa junior mondiale. La religione non c’entra mai. È l’ignoranza, la sotto-cultura e l’arroganza dei maschi a rovinare tutto”.
Dice di ammirare Papa Francesco, il suo messaggio forte per salvare l’umanità e il suo impegno per aiutare i più deboli. A tal proposito, con un filo di voce, svela il suo progetto ambizioso: “Vorrei tanto aiutare le bambine e le donne del mio Paese. Ogni giorno che passa penso sempre che io sono libera mentre le altre sono imprigionate in casa. La guerra civile ha ucciso molti maschi, così le vedove e le orfane non possono lavorare ma sono solo costrette a chiedere l’elemosina per sopravvivere”.
Maria è arrabbiata, non riesce a concepire l’ottusità che annebbia le menti di molti suoi connazionali: “Bisogna far capire a certi maschi che se le donne fossero istruite e libere di lavorare potrebbero aiutare le famiglie anche in assenza di uomini. In Pakistan molti usano l’Islam come strumento politico e di business, se il Profeta Mohammad ritornasse oggi non applicherebbe queste leggi arcaiche. Il Profeta era moderno e riformatore. E noi non dobbiamo aver paura delle riforme. E soprattutto le leggi devono essere adeguate al tempo e allo spazio del loro essere. Il mio sogno è di insegnare lo sport alle donne del mio Paese, là dove sono sottomesse e ridotte in schiavitù. Lo sport può essere ricerca di libertà, uguaglianza ed emancipazione”. Ecco, quando si dice campionessa. Grazie Maria, campionessa di squash e di vita.
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