Ma quale empatia, ci siamo appropriati dei dolori dei migranti

di Ndack Mbaye

Che sia giusto o meno, l’uomo non è libero: sottostà alle necessità dell’apparato creato da lui stesso. Questo nel bene, oltre che nel male. Trovare le argomentazioni per giustificare questa infausta condizione, è da secoli materia di lavoro di filosofi, giuristi, sociologi, antropologi e anche scienziati. Ci vuole una certa sapienza per individuare il tracciato della necessità giuridica, che al contempo deve riuscire a sua volta a cogliere i sentimenti umani, l’interesse individuale e gli obiettivi della pubblica utilità. Illuderci di poterlo fare da noi è da idioti e da presuntuosi: il diritto ci tocca tutti, ma non siamo tutti capaci allo stesso modo di toccarlo. Chi nella società si fa precorritore di un sentiero progressista, in aperta discontinuità con il conservatorismo di una certa altra parte della stessa società, ha il dovere morale di tentare una ricomposizione del tessuto sociale.

Questo perché, come logica vuole, chi riesce a guardare più in là ha una panoramica più estesa su ciò che ha di fronte, ma anche su ciò che si lascia alle spalle. Da qui il dovere morale di sfruttare questa visuale privilegiata e, per alcuni versi illuminata, che grava di responsabilità soggettiva la necessità di evitare la radicalizzazione delle distanze. Un movimento che non parte da questo assunto, si trasforma in orda: una comunità di cacciatori e predatori che non libera, ma conquista.

Potrebbe sembrare, a prima vista, un discorso infarcito di caritas cristiana. Forse lo è, ma ciò non cambia il fatto che sia anche tremendamente logico: più il bene (che per noi amanti dell’accoglienza è ovviamente tale, ma che lo è anche per chi ci si oppone: non a caso parlano di “buonismo”, che ha la stessa radice) si allontana dal male (anche qui non serve un virgolettato: gli stessi xenofobi non hanno più paura a rivendicare la dignità del loro essere rappresentanti di questa fazione), più perde la sua connotazione originaria e la sua funzione di agire sul male stesso; diventa quindi un bene a se stante, una normalità autoreferenziale, incapace di agire su altro che non sia se stessa e che propaga se stessa.

Gli abitanti di Goro sono espressione di una subcultura estranea ai nostri codici di lettura, una zona che vive in uno stato di quarantena civile, culturale e sociale. E’ la stessa frangia di popolazione di cui ci occupavamo fino all’altro ieri, quando l’emergenza umanitaria non era a questi livelli, e per la quale chiedevamo più istruzione, inclusione sociale, lavoro. Le cose non sono cambiate da ieri a oggi e l’esigenza di lottare contro razzismo e xenofobia non è più presente né meno importante dell’esigenza di problematizzare il sapere: il nostro, e quello delle persone a cui chiediamo di capire il particolare frangente storico in cui viviamo. Goro è il buio della coscienza di ognuno di noi. Una coscienza che trova del merito nel non essere così acclaratamente razzista, fingendo di ignorare che si tratta solo di fortuna derivante dall’avere una certa predisposizione mentale e un certo trascorso.

L’accettazione dello straniero non è banale. Né merita di essere banalizzata con questa rincorsa all’umanizzazione forzata e, a tratti, quasi melensa. Una forzatura va ad agire direttamente sulla narrazione della soggettività migrante, che viene incanalata, ancora prima di poter esistere, in un binario di più facile comprensione per i soggetti riceventi: in altre parole, fa più gioco a noi (a voi) narrare dei migranti come soggetti che hanno attraversato l’inferno per arrivare qui e trovare altro inferno. Non sapete di cosa state parlando, non sapete se camminare per un numero impressionante di ore nel deserto sia davvero così male per chi magari era abituato a fare uno sforzo quasi simile ogni giorno per andare a scuola o al lavoro, vi calate nel dolore di altri non avendo chiavi di lettura per farvene interpreti.

Si tratta di narrazioni a senso unico, a cui il protagonista sente di dover cedere per ricevere il sostegno di cui ha bisogno e per poter spiegare il proprio male con termini che l’interlocutore è in grado di comprendere. Così, all’empatia si sostituisce l’appropriazione emotiva. Quasi a voler essere noi i profughi, i vessati: registi insoddisfatti dei loro attori. Non dovrebbe servire una specificazione, ma vista la malafede dilagante è il caso di farla: non intendo negare le sofferenze e le ingiustizie che chi arriva qui ha subito, subisce e probabilmente, continuerà a subire; mi limito a illuminare un punto, fondamentale per il prosieguo del discorso. Le narrazioni di tutto quanto quello che non neghiamo accada, rispondono però al cliché di un immaginario nazionale-coloniale. Un immaginario da cui dobbiamo fuggire e che non possiamo più negare esista: primo, perché ostacola una trattazione utile del tema; secondo, perché necessariamente esclude dalla trattazione chi non si allinea a questo (vedi, chi non ha attraversato il deserto, subito violenze in Libia, temuto la morte in mare per poi arrivare in Italia con “quei cappucci in testa, quasi la vergogna di disturbare. Disturbare la nostra vergogna”, come scrive Mauro Biani in una sua vignetta per Il Manifesto).

In seguito ai fatti di Goro si è fatta ancora più profonda la faglia che allontana l’accoglienza dalla logica che vuole combattere, fatta di barricate e focolai. Accogliere è una questione di cuore ma, ai nostri tempi, è anche e soprattutto una questione giuridica: è in virtù di norme che accogliamo. Dire che l’accoglienza è solo una questione umana e accalorarsi, tutti pieni di indignazione, quando qualcuno non si dimostra accogliente è da imbecilli: se si tratta di una questione di cuore, nulla ci obbliga a possedere lo stesso. Per quanto riguarda l’accoglienza come espletamento di una delle funzioni che l’ordinamento giuridico si è posto, la questione non è di certo meno problematica, ma ci offre anche i criteri per poterla affrontare. Se la normativa vigente in materia di Asilo è percepita come ingiusta nelle sue fondamenta, si tratta di normalizzare il rapporto di alterità e conseguente diffidenza che intercorre tra cittadini e ordinamento giuridico.

Attenzione. Non mi riferisco alla necessità di considerare ogni prodotto dell’ordinamento come buono, ma di ricominciare a comprendere perché viviamo in un rapporto fatto di libertà e di vincoli, di diritti e di doveri, sempre tenendo conto che una certa diffidenza verso questa intromissione dello Stato nel segreto delle nostre coscienze e delle nostre azioni è fisiologica, ma che la stessa risponde a necessità fondamentali. La ragione per la quale, come Stato, accogliamo è che aderiamo alla Convenzione di Ginevra, attuata nel nostro paese da altre leggi e decreti. Se qualcuno non vuole accogliere, si pone in aperta ostilità con l’ordinamento. Questa aperta ostilità, come accennato prima, è fisiologica e giusta, nei limiti che ognuno si pone nella propria visone politica. Sarebbe inumano, innaturale e forse anche immorale accettare senza fiatare “la gabbia delle istituzioni” e “il giogo delle leggi”. A un certo punto però la fisiologia sfocia nella patologia: ciò avviene quando non si conosco più le ragioni alla base di questo assoggettamento.

Nelle stesse ragioni sta la natura di quello che è il nostro ordinamento giuridico e politico: un’organizzazione che, nei secoli, è stata assunta con la funzione operativa di garantire la relazione inter-soggettiva; un’organizzazione che parte da un protocollo convenzionale, che è quello per il quale, se mancasse un apparato statale con le sue leggi e le su istituzioni, l’uomo ritornerebbe allo stato di natura.

Ovviamente questo protocollo è assunto a-problematicamente: era lo stesso Galileo a ricordare che la scienza esclude dalle sue prospettive conoscitive la comprensione dell’essenza delle cose. Così, il nostro stare insieme, è normato da una geometria legale per la quale facciamo discendere una risposta a una domanda, ma non sappiamo ripercorrere a ritroso la strada fino alla ragione prima del perché abbiamo deciso, nei secoli, di vivere così come viviamo.

La conseguenza è una spersonalizzazione dei rapporti, per cui partiamo dal presupposto per il quale la relazione tra persone reali sia qualcosa di convenzionalmente negativo che necessita di essere regolato. Così le persone sono diventate cittadini e stranieri, che però, ovviamente, non possono totalmente prescindere dalla consapevolezza che oltre al virtualismo c’è un’effettività fatta di emozioni conciliatrici, ma anche oppositrici.

Il risultato di queste considerazioni può essere quello di una profonda delusione; una sorta di inquietudine per la precarietà su cui si gioca la nostra quotidianità. Questa condizione, però, deriva dal fatto che tutti partiamo dal presupposto che l’unica forma di conoscenza sia quella geometrica, per cui si arriva alla vetta con l’ausilio di appigli e funi che ci fanno avanzare cancellando ciò che abbiamo alle spalle e attorno.

Esiste invece anche la dialettica, per la quale non è detto di avere la verità in tasca ma per la quale è dato di poterla formulare attraverso il dialogo che rimette in discussione i propri risultati. Ed è della dialettica che abbiamo bisogno per affrontare razzismo e xenofobia. E’ comprensibile desiderare lasciarsi alle spalle l’odio ingiustificato che muove dalla razza, ma è stupido credere che l’essere ben lontani dall’anno zero sia un’argomentazione sufficiente. Purtroppo l’odio, come l’amore, rinnova se stesso ogni secondo e moltiplica le sue sfaccettature in ogni piega dell’infinito dell’animo umano.

Io che scrivo sono donna, nera, figli di musulmani, immigrata: credo di aver provato più razzismo di molti di voi che leggono. Credere di non meritare un trattamento simile perché sono anni, ormai, che la gente ha sotto al naso gli strumenti per debellare il proprio odio, non farebbe onore né alla mia intelligenza né alla natura sconfinata dell’essere umano (che per essere capace di tante cose belle, deve poter contenere in egual misura anche quelle brutte).

Inoltre, riflettiamo, cosa possiamo fare di un razzista? Oltre ai sentimenti negativi che genera in noi, come possiamo affrontare il suo modo di vedere con occhi diversi la stessa realtà che vediamo noi? L’intolleranza non può essere ignorata, ma bisogna ricordare che prima di una tendenza politica si tratta di una tendenza psicologica -tra l’altro presente in ognuno di noi, che anche se indirizziamo il nostro odio verso persone che è più ragionevole odiare, non siamo per questo immuni. Il razzismo è quindi ideologia, una prospettiva che nasce particolare e che viene assunta come misura di tutte le altre visioni del mondo.

Allora appare evidente come non si possa combattere una prospettiva particolare con un’altra che lo è in egual misura. Anche se è difficile non cedere. Anche se è difficile non spazientirsi. Anche se è impossibile trovare tracce di raziocinio e umanità in un ignorante che blocca la strada di una città, di un paese, di un mondo, di una vita lontano dalla morte, che pensa di possedere.

I 300 di Goro vanno puniti perché hanno impedito il pubblico esercizio della funzione pubblica, come è capitato a tanti di noi nelle nostre lotte collettive, con l’aggravante di averlo fatto mettendo in atto una discriminazione che va contro i principi del nostro ordinamento. Oltre a ciò, però, deve arrivare una risposta proprio da noi che da anni riconosciamo la molteplicità delle forme di pensiero (anche se questa molteplicità la vedo a fatica anche tra i nostri ranghi) e che, non senza una certa supponenza, chiediamo alla gente di “ragionare”, “informarsi”, “problematizzare”.

Siamo i primi a dover scindere l’ideologia del razzismo dal sentimento della paura, senza il timore che l’attenzione da rivolgere al secondo scalfisca la lotta alla prima. Non si tratta di non violenza, né di andare a casa di ciascuno dei barricanti a discutere della questione dietro una tazza di tè. Si tratta di continuare a lottare, denunciare, vivere le strade e i quartieri, creare luoghi di aggregazione sociale, affrontare a viso aperto chi si fa portatore di valori inconciliabili con i nostri principi di umanità e solidarietà.

Ma farlo ricordandoci che la solidarietà non va sostituita ai diritti; che la comprensione che sentiamo per le sofferenze di chi scappa dalle guerre è nobile, ma che diventa banale se poi non riusciamo ad applicarla anche laddove non è così evidente. Io i 300 di Goro riesco a comprenderli. Il loro linguaggio mi è estraneo e così lo sono anche i loro valori, ma comprendo cosa possa fare un animo ignorante e insicuro. Come loro provano odio, scaturente da una paura irrazionale e irrefrenabile, verso i negri, io provo odio e paura verso di loro; ma allo stesso tempo valgo più di loro. Tanto di più. Ho passato almeno un secondo in più della mia vita, rispetto a loro, a preoccuparmi per un Altro che fosse fuori dal mio cortile. Ho passato almeno un giorno in più della mia vita, rispetto a loro, a contatto con la miseria che non riescono a comprendere e che i media non sanno e non possono raccontare.

Ho vissuto almeno una vita in più, la mia, rispetto a loro, a vivere il continuo incontro e scontro con il diverso. Io i 300 di Goro riesco a comprenderli e mi sembrano quasi più umani, seppur di un’umanità debole, rispetto a chi tanto si vuole contraddistinguere da loro e che lo fa avanzando solo per contrarietà, per interposizione, per indignazione, per acclamazione. Così che a un certo punto sparisce anche la contrarietà.


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