Corte dei Miracoli, la città nella città che non piace al potere

di Stefano Pacini

È la città del Palio, la città del Monte dei Paschi, la città che si piazza nelle prime posizioni per la qualità della vita nelle classifiche specializzate. Una città ricca, che ha inventato le banche, le cambiali, e se ne fa vanto in piazza Salinbeni con la statua a Sallustio Bandini e la sede centrale del MPS. Ma è anche la città universitaria, quella del buongoverno, la perla del medioevo, meta di carovane di turisti, piccola città, chiusa tra le sue mura, divisa in contrade e rituali.

Poi c’è una città nella città, con le sue mura cancellate, padiglioni, alcuni restaurati e occupati dall’Università, altri invecchiati, altri cadenti. È la città dolente, il vecchio manicomio, uno dei più grandi d’Italia. E all’interno di questa piccola città nella piccola città, c’è un edificio, la palazzina Livi, sede del centro culture contemporanee Corte dei miracoli, semplicemente la Corte per i suoi tanti amici.

È una storia che parte negli anni ’90, dai movimenti giovanili che cercano spazi da autogestire con alterne fortune, avanzate e ritirate, finché nel 1998 decidono di occupare la vecchia palazzina abbandonata. La Corte nasce quindi come un centro sociale, ma avrà ben poco di barricadiero; a nessuna delle parti fa comodo il muro contro muro, e non è così netto il confine tra “amici” e “nemici” in una piccola città di “sinistra” dove tutti si conoscono e salutano.

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Le attività svolte all’interno virano ben presto dal politico al culturale, dopo diversi tempo vengono stretti dei patti con la proprietà dell’Asl, media anche il Comune, arrivano dei contributi per le attività di sostegno e prima accoglienza ai migranti. Ma la posizione della Corte rimane sospesa, in un limbo di tollerata presenza e incerto futuro.

Il complesso fa gola al mercato, negli ultimi anni spunta un progetto immobiliare di appartamenti di lusso, l’ASl deve ripianare i suoi buchi nel bilancio, ma intanto è esplosa la grande crisi finanziaria, che a Siena vuol dire crollo delle certezze di babbo MPS, taglio di tutti i fondi, voragine nei conti dell’Università che rischia, come il Monte, la bancarotta.

Falliscono il Siena calcio e soprattutto la Mensana basket, vanto e gloria della città-stato, e anche il Comune viene commissariato prima che un renziano diventi sindaco in mezzo a faide interne al PD. Il caos finanziario allontana e fa tramontare il progetto appartamenti, come già quello di un aeroporto civile ad Ampugnano, ma non c’è tempo di tirare il fiato, l’ASl continua ad accampare i debiti dei vecchi affitti non pagati, ottiene lo sfratto della Corte, che riesce a rimandarlo e a trattare, a pagare un nuovo affitto, e la candidatura di Siena a capitale europea della cultura sembra suggerire una tregua.

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Che finirà non appena in questa candidatura Siena sarà sconfitta da Matera. C’è del metodo e del dna storico toscano in questo apparente succedersi di eventi. La Corte viene vissuta come una parte che non si schiera, né con le contrade, potenza e anima del tessuto cittadino, né col Comune o con una delle parti intente a spartirselo. Intanto l’associazione è cresciuta, non è più solo il live set musicale del sabato sera, ma contando centinaia di soci, è decine di corsi che spaziano dal teatro alla fotografia, dallo yoga al judo, dalla scuola di italiano per migranti ai corsi di giapponese, arabo, hip hop e danza indiana classica, è sede di comunità straniere africane e latinoamericane, vede presentazioni di movimenti lgtb e libri, mostre, installazioni, pranzi di solidarietà ed etnici.

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Se nostra patria è il mondo intero, ecco, la Corte dei miracoli in quasi venti anni di storia lo è diventata, patria multicolore, mondo, in una città altrimenti chiusa da mura e fin troppo ripiegata su se stessa, su un passato glorioso e un Palio rituale di una vita non più immutabile. La Corte ha la presidente degli States, il custode tutto fare della Romania, addetti stampa svizzeri, francesi, campani, insegnanti maremmani, senesi, arabi, domenicani, spagnoli, ha studenti di italiano di tutti i continenti e volontari al suo interno di tutte le età e provenienze.

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E lo è diventata multicolore riscattando un luogo grigio, l’ex O.P., le cui mura sono ancora intrise di dolore, un dolore che per tanti anni la città non ha voluto né vedere né ascoltare. Come spesso ha voluto etichettare e marginalizzare la Corte stessa, non troppo chic per il decoro nobiliare; questo sino al 29 novembre, che quando lo sfratto è diventato esecutivo la città si è svegliata dal torpore e forse ha capito che non può permettersi una simile perdita.

Pare raggiunto un accordo per la sua riapertura a gennaio, sotto l’egida comunale e una mediazione della Regione, ma incombe comunque l’incognita di un bando per la sua gestione alla fine della prossima estate. La morale di questa favola è sempre la stessa, qui, o in altre città assai diverse: il sistema non prevede spazi culturali autogestiti che non producono profitto o visibilità per le consorterie politiche. Che si tratti di spazi “antagonisti” o pacifici e bene integrati, poco cambia.

Molti ancora non si rendono conto che eliminare o strangolare questi spazi culturali e artistici vuol dire scavarsi rapidamente la fossa di una esistenza triste e omologata, che l’unica cosa che alla fine conta è stare insieme per un sogno. La Corte non si arrende però, terra della nostra anima ci ha abituato a tenere fede al suo nome, e non dubitiamo che, con l’aiuto dei tanti che l’hanno vissuta e amata, tornerà miracolosamente a vivere e raccontarci il mondo.


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