Gli italiani che non possono votare

di Serena Santoro

Il 4 dicembre un referendum ha cambiato le sorti del Paese, ma c’è chi è rimasto escluso. Sono i ragazzi di seconda generazione che, nati o cresciuti in Italia, chiedono di poter partecipare finalmente alla vita dello Stato.

Siamo gli italiani e le italiane senza cittadinanza uniti nel chiedere una legge 91/92 più aperta verso di noi, figli invisibili. Siamo tutti italiani, ma con una particolarità: non abbiamo un documento che lo possa testimoniare. La legge 91/92 non rispecchia l’attualità della nostra Italia, e ci rende difficile e talvolta impossibile acquisire la cittadinanza italiana”. Con queste parole la rete di Italiani senza cittadinanza ha rilanciato sui social network la campagna #italianisenzavoto.

Un’iniziativa che si profila come l’ennesima pressione volta all’approvazione del disegno di legge sulla cittadinanza, fermo da più di un anno alla commissione Affari costituzionali del Senato. Un testo unico che, approvato dalla Camera con 310 sì, 66 no e 83 astenuti, modifica l’attuale legge 91/92 sulla base dello ius soli e dello ius culturae.

Secondo queste modifiche chi è nato in Italia da genitori stranieri – di cui almeno uno titolare del diritto di soggiorno permanente o in possesso del permesso di soggiorno Ue per soggiornanti di lungo periodo – è di diritto cittadino italiano.

Un riconoscimento che il ddl garantisce anche ai minori nati in Italia o entrati nel nostro Paese entro il compimento del dodicesimo anno di età, a patto che abbiano frequentato regolarmente, e per almeno cinque anni, uno o più cicli appartenenti al sistema nazionale di istruzione (in caso di formazione primaria è richiesta la positiva conclusione del corso).

«Le nostre vite – spiega Youness Warhou, 22 anni, studente e attivista di Italiani senza cittadinanza – sono condizionate quotidianamente dalla mancata cittadinanza. Nella peggiore delle ipotesi rischiamo addirittura di diventare clandestini, magari solo perché i nostri genitori hanno perso il lavoro e non possono più rinnovare i nostri permessi prima del compimento dei 18 anni. Abbiamo avuto l’opportunità di confrontarci con i senatori e spiegare le nostre necessità – continua Youness – ma attualmente manca la volontà e il coraggio di approvare la legge».

Il provvedimento, bloccato da più di un anno a Palazzo Madama a causa della presentazione di oltre 7000 emendamenti, la maggior parte della Lega Nord, incontra ora anche l’ostacolo della crisi di governo. Se infatti la manovra finanziaria è stata oggetto di un’approvazione lampo da parte del Senato, i tempi per la riforma della cittadinanza sembrano dilungarsi. Un rallentamento a cui si oppone la relatrice della proposta Doris Lo Moro (Pd) che sollecita al più presto la chiusura della partita sul ddl.

L’incerto scenario politico rischia quindi di vanificare le pretese delle seconde generazioni, sempre più stringenti, soprattutto dopo l’entrata in vigore, a febbraio 2016, della legge sullo ius soli sportivo. Una novità che consente ai minori stranieri regolarmente residenti in Italia – almeno dal compimento del decimo anno di età – di essere tesserati presso le federazioni sportive con le stesse procedure previste per il tesseramento dei cittadini italiani.

Tuttavia, per la restante disciplina, le regole generali in materia di cittadinanza non sono cambiate. Mentre lo iure sanguinis continua a rimanere il criterio che caratterizza l’attuale normativa, lo ius soli si limita ad essere previsto come mera eventualità (è il caso dei figli nati in Italia da genitori ignoti o apolidi). Uno ius soli marginale che esclude di fatto il diritto alla cittadinanza per i figli nati in Italia da genitori stranieri.

La legge prevede comunque anche altre possibilità: l’acquisizione per matrimonio o per naturalizzazione. Il matrimonio, occorre però precisarlo, non concede automaticamente la cittadinanza. È infatti necessaria la residenza legale di almeno due anni in Italia a partire dalla data delle nozze (tempi dimezzati in caso di figli nati o adottati dai coniugi), condizione valutata con ampi spazi discrezionali dalla pubblica amministrazione.

Decisamente più lungo, invece, il percorso altrettanto arbitrario della naturalizzazione. Lo straniero può fare richiesta della cittadinanza italiana solo se risiede legalmente da almeno dieci anni in Italia. Una regola che prevede termini ridotti per casi particolari, come i tre anni di residenza legale per gli stranieri nati nel territorio dello Stato, i cinque anni nel caso in cui l’interessato sia un rifugiato o un maggiorenne, se adottato o figlio di genitore naturalizzato italiano, o ancora i quattro anni per i cittadini comunitari.

Il rilascio della cittadinanza rimane comunque una possibilità, che viene valutata alla luce di diversi criteri, come la percezione di un reddito sufficiente, l’integrazione sociale, l’assenza di precedenti penali o di altri motivi che possano invalidare la richiesta per pubblica sicurezza. Requisiti che non possono essere definiti oggettivi. Ma la normativa, oltre a valutazioni discrezionali, prevede un trattamento differenziato a seconda che lo straniero sia o meno cittadino comunitario. Stranieri di serie a, stranieri di serie b.


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