testo e foto di Federica Tammaro
Arrivare nella capitale dell’Azerbaigian, la scintillante e luminosa
Baku, la Dubai del Caspio, può creare l’illusione di un Paese al passo
con i tempi: palazzi avveniristici, fontane multicolori, giochi di luci,
traffico composto da molti suv. Ma la realtà è in agguato appena ci si
allontana dal centro città.
Piccoli paesi poveri pur nella dignità, unica ferrovia, un servizio di autobus che termina dopo le 15, un parco d’auto sovietico di annata, e quella di tassista una delle professioni più diffuse per sopperire agli scarsi collegamenti. Taxi che partono solo quando con i pochi “manat” dei passeggeri si riesce a fare il pieno. Per altro la benzina costa pochissimo rispetto ai nostri parametri, ma l’essere un forte produttore di petrolio e gas non pare risollevare l’economia del Paese, anche se un grande gasdotto servirà a breve Georgia, Turchia, Grecia e Albania per forse giungere in Italia
bypassando la Russia.
M., un ragazzo laureato che sbarca il lunario facendo vari lavori e la guida non ufficiale, ci spiega che i motivi di questa crisi sono diversi: la vendita del gas per motivi geopolitici all’ Iran a prezzo “ribassato”, il crollo del prezzo del petrolio e le spese del comparto militare, dell’eterna mobilitazione-stato di guerra contro l’Armenia per il Nagorno Karabakh. Prudentemente M. non accenna a un quarto motivo: la corruzione e l’arricchimento spudorato della famiglia Alijev che dal momento dell’indipendenza alla dissoluzione dell’Urss, si è impadronita del potere con elezioni-plebiscito per lo meno dubbie, favorendo un culto della personalità dilagante nel Paese.
Non c’è negozio o palazzo pubblico che non abbia un ritratto del padre-padrone della nazione, o piazza importante senza una sua statua, talvolta abbracciato al figlio che in maniera dinastica gli è succeduto dal 2003 al potere. E fa bene M. ad esser prudente. Durante la nostra permanenza un blogger azero è stato rapito: aveva espresso critiche contro la corruzione. D’altra parte ci dice che non è delicato fare domande in giro sul governo e la guerra, né dire di essere stati in passato in Armenia. La ferita della perdita del Nagorno-Karabakh è ben presente nei racconti di tutti, naturalmente da questo lato del confine nessuno dubita che l’Armenia sia l’aggressore e il Nagorno azero e culla della sua storia.
Vero è che gli abitanti della regione del Naxcivan, divisa dal resto del territorio azero da un corridoio armeno, per raggiungere il resto del Paese devono fare un lungo giro passando dall’Iran. E anche volendo far domande fuori da Baku quasi nessuno parla inglese, pochi i turisti, turchi e russi; il turista occidentale suscita però una benevola curiosità e tutti si fanno in quattro a gesti o con telefonate all’amico del parente che forse sa due parole in inglese per dare informazioni, vitto e alloggio.
La popolazione è quasi tutta sciita, vive con molta tranquillità e tolleranza la sua religione senza interpretazioni “fondamentaliste”, lo si nota nei costumi, nelle preghiere, nel fatto che esiste ancora una piccola comunità ebraica (detti ebrei della montagna) e una forte comunità zoroastriana, antichi adoratori del fuoco, il tempio di Ashgah vicino a Baku è una delle principali mete di pellegrinaggio dei fedeli di questo culto, e non è raro vedere azeri sciti unirsi agli zoroastriani per festeggiare il capodanno “nowruz” saltando da una parte all’altra di pire infuocate.
Certo, non è tutto così idilliaco, anche da qui sono partiti decine di combattenti che si sono uniti all’Isis, ma sicuramente in misura molto minore di altre repubbliche asiatiche vicine. Prima di abbandonare il Paese visitiamo il mausoleo di Baku ai caduti della guerra contro l’Armenia.
Un lungo muro all’aperto con moltissime lapidi e nomi. Ognuno ha un garofano rosso che viene cambiato ogni giorno. M. ci dice che praticamente ogni famiglia azera ha almeno un caduto in questa guerra. Rimane in silenzio per un po’, poi prima di salutarci dice che presto partirà anche lui per il confine per uno dei periodi di richiamo, che il servizio militare è obbligatorio e semi permanente.
Le rapide ombre gelide dell’inverno che si allungano sulla piazza sembrano evocare un futuro incerto per questo Paese, che ancora nel 2017 sconta i danni della storia, della politica stalinista e della dissoluzione dell’Urss.
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