di Aimé Césaire*
Spero di non ferire nessuno confessando di non amare, almeno non sempre, il termine “Negritudine”, anche se sono stato io, con la complicità di qualche altra persona, ad aver contribuito principalmente alla sua invenzione e al suo lancio. Ma per quanto mi sia sforzato, e continui a sforzarmi, di non farne un’icona, vedervi tutti qui riuniti, provenienti da diversi paesi così diversi, mi dimostra con evidenza che questa parola corrisponde a una realtà evidente e, in ogni caso, a un bisogno che dobbiamo considerare profondo.
Di quale realtà si tratta? Una realtà etnica, mi si dirà. Certo. Non a caso, il termine “ethnicity” è stato chiamato in causa per definire il tema della nostra conferenza. Ora però non dobbiamo consentire a questa parola di fuorviarci. Infatti, la Negritudine non è una categoria essenzialmente di ordine biologico. Essa comprende una gamma di significati ben più ampi di semplici e immediati elementi biologici, facendo riferimento evidentemente a qualche cosa di più profondo. In particolare a una somma di esperienze storicamente vissute, che sono giunte a definire e a caratterizzare il destino di una forma di vita umana: la Negritudine è una delle forme storiche che danno agli uomini una particolare condizione di vita.
In effetti basta riflettere un attimo su quale sia il comune denominatore che ha portato a incontrarsi, qui a Miami, i partecipanti di questa conferenza per comprendere che non è necessariamente il colore della pelle ad unirli; ma piuttosto il fatto che fanno parte di gruppi umani vittime delle peggiori violenze conosciute nella storia, di gruppi che sono stati e sono ancora oggi rigettati ai margini e oggetto di diverse forme d’oppressione.
Ricordo ancora la mia meraviglia quando, per la prima volta, ho visto nella vetrina di una libreria in Quebec un libro il cui titolo lì per lì suscitò in me un grande sconcerto. Il titolo era: “Nous autres nègres blancs d’Amérique”. Chiaramente, non ho potuto non sorridere dentro di me di fornte a tale esagerazione, ma comunque mi sono anche detto: “Ebbene, questo autore, anche se esagera, ha in ogni caso compreso il senso della Negritudine”.
Sì, certo, noi apparteniamo a una comunità, ma a una comunità di tipo assai particolare, riconoscibile, oggi come ieri, da ciò che la produce e ne definisce le modalità: si tratta di una comunità costituita a partire dall’oppressione subita, dall’esclusione imposta, dalla discriminazione più dura. E anche, non c’è dubbio, da qualcosa che le fa onore, ovvero dalla resistenza continua, dalla lotta irriducibile per la libertà e da una inesauribile speranza. Per essere sinceri, era questo tutto ciò che rappresentava ai nostri occhi di giovani studenti (all’epoca Léopold Senghor, Léo Damas, io stesso, più tardi Alioune Diop e gli altri compagni di Présence Africaine), e che ancora oggi, noi sopravvissuti di quel gruppo, pensiamo debba significare questa strana parola, ora vituperata, ora incensata, in ogni caso difficile da usare e da gestire: erano e sono questi i significati veicolati dalla parola Negritudine.
La Negritudine, ai miei occhi, non è una filosofia.
La Negritudine non è una metafisica. La Negritudine non è una pretenziosa concezione dell’universo. È un modo di vivere la storia nella storia: la storia di una comunità la cui esperienza si presenta, a dire il vero, estremamente singolare, definita dalle deportazioni, dal trasferimento forzato di uomini da un continente a un altro, dai ricordi di credenze lontane, dai frammenti di culture assassinate che le appartengono.
Come non pensare che tutto questo, la sua coerenza, non costituisca un patrimonio? Occorre dell’altro per fondare un’identità? I cromosomi m’importano poco. Ma io credo agli archetipi.
Io credo al valore di tutto ciò che è custodito nel profondo della memoria collettiva dei nostri popoli e anche dentro l’inconscio collettivo.
Io non credo che si arrivi al mondo con il cervello vuoto, come ci si arriva con le mani vuote.
Io credo alla virtù plasmatrice delle esperienze secolari accumulate e del vissuto veicolato dalle culture.
Per quanto singolare possa essere, e sia detto di sfuggita, non mi ha mai convinto l’argomento secondo cui l’unico contributo dato da milioni di uomini africani portati in America dai negrieri sia stato quello misurabile in termini di forza animale –una forma animale e non necessariamente superiore a quella del cavallo o del bue- e che essi non abbiano fecondato le civiltà che stavano allora nascendo con un certo numero di valori essenziali, di cui questa nuove formazioni politiche e sociali erano le portatrici in potenza.
Questo significa Negritudine, alla base, può essere definita come presa di coscienza della differenza, come memoria, come fedeltà e come solidarietà. Ma la Negritudine non è soltanto passiva.
Non appartiene unicamente all’ordine del patire e del subire. Non è un modo di vedere le cose all’insegna del patetico e dell’afflizione. La Negritudine dipende da un atteggiamento attivo e offensivo dello spirito. È un soprassalto, un soprassalto di dignità. È un rifiuto, voglio dire rifiuto dell’oppressione. È una battaglia, cioè una battaglia contro la disuguaglianza.
È una rivolta. Ma, voi mi chiederete, rivolta contro che cosa? Sono ben consapevole di partecipare a un congresso a carattere culturale, e che è in questa città, Miami, in cui pronuncio queste parole. Credo si possa dire, in senso generale, che storicamente la Negritudine è stata innanzitutto una rivolta contro il sistema mondiale della cultura formatosi durante questi ultimi secoli, un sistema caratterizzato da un certo numero di pregiudizi, di presupposti, che a loro volta vengono a costituire una gerarchia schiacciante ed estremamente rigida. In altre parole, la Negritudine è una rivolta contro quello che io definirei il riduzionismo europeo.
Voglio parlare di questo sistema di pensiero. O meglio, della istintiva tendenza di una civiltà eminente e prestigiosa ad abusare del suo stesso privilegio per farsi del vuoto intorno, interpretando la nozioni di universale, casa a Léopold Sédar Senghor, esclusivamente in rapporto alle dimensioni che le appartengono, ovvero a pensare l’universale a partire dei suoi soli postulati e attraverso le categorie che essa riconosce come proprie. Abbiamo visto, abbiamo visto fin troppo, le conseguenze di tutto questo: strappare l’uomo da se stesso, strappare l’uomo dalle sue radici, strappare l’uomo dall’universo, strappare l’uomo dall’umano, isolarlo definitivamente in un orgoglio suicida o in una forma razionale e scientifica della barbarie.
Ma, voi penserete, una rivolta che non è altro che rivolta potrebbe rivelarsi come un’altra forma di chiusura, come un’impasse, storicamente parlando. Se la Negritudine non è caduta in questo errore è perché essa costituisce una strada che porta necessariamente da un’altra parte. Dov’è che ci ha condotto? A restituirci a noi stessi. In effetti, dopo tanta frustrazione era il modo per noi di riappropriarci del nostro passato e, insieme, attraverso la poesia, attraverso l’immaginario, il romanzo, le opere d’arte, a conquistare dei barlumi, seppure intermittenti, di un possibile divenire.
“Terremoto concettuale”, “sisma culturale”, tutte le metafore dell’isolamento divengono a questo punto possibili. Ma la cosa fondamentale è che questa nozione ci consentiva, a noi stessi, di cominciare con un’impresa di riabilitazione dei nostri valori, di approfondimento del nostro passato, ovvero di tornare a radicarci dentro la nostra stessa storia, dentro una nostra geografia, in una cultura riconoscibilmente nostra. E di tradurre tutto questo non certo all’interno di un passatismo arcaicizzante, ma in virtù di una riattivazione del passato finalizzata al suo superamento.
Letteratura, mi chiederete?
Speculazione intellettuale?
Senza alcun dubbio. Ma né la letteratura né la speculazione intellettuale sono innocenti o inoffensive.
E di fatto, quando penso alle conquiste dell’Indipendenza nell’Africa negli anni Sessanta, quando penso a questo slancio di fede e di speranza capace di sollevare, all’epoca, un intero continente, non lo nego, penso proprio alla Negritudine. Perché sono convinto che la Negritudine abbia giocato il suo ruolo, e probabilmente un ruolo capitale, poiché è stato un ruolo di fermento o di catalizzazione.
La stessa riconquista dell’Africa non è stata facile. L’esercizio di questa rinnovata indipendenza ha comportato molti problemi, si è andati incontro a notevoli imprevisti e, a volte, ci sono state anche delusioni profonde. Ma solo uno sguardo distorto da una spaventosa e colpevole ignoranza della storia dell’umanità, della storia della formazioni delle nazioni nella stessa Europa in pieno XIX secolo –in Europa certo, ma anche altrove-, potrebbe non vedere e non comprendere che l’Africa, anche l’Africa, doveva inevitabilmente pagare il suo tributo al momento del grande mutamento.
Ma l’essenziale non è questo. L’essenziale è che l’Africa ha voltato la pagina del colonialismo e, con questo atto, ha contribuito a inaugurare una nuova era per l’intera umanità.
Per quanto riguarda il fenomeno americano, esso non appare meno straordinario e significativo di quello africano. Anche se in questo caso di tratta di colonialismo interno e di una rivoluzione silenziosa (la rivoluzione silenziosa è la migliore forma di rivoluzione). In effetti, quando vedo i formidabili progresso compiuti in questo periodo dai nostri fratelli afro-americani, quando vedo il grande numero di città statunitensi amministrate da sindaci neri quando vedo, dovunque, nelle scuole, nelle università, il numero sempre crescente di giovani e uomini neri, quando vedo questa formidabile avanzata –per impiegare l’espressione americana: advancement of coulored people -, non posso non pensare all’opera compiuta da Martin Luther King Jr., uno dei vostri eroi nazionali, al quale, a giusto titolo, la nazione americana ha consacrato un giorno di commemorazione.
Ma all’interno di questa conferenza incentrata sul tema della cultura, devo aggiungere che penso qui anche ad altro. In particolare alla stupenda leva d’artisti, ormai lontana, a quel gruppo eletto di scrittori, saggisti, romanzieri, poeti che ci hanno influenzato, sia me che Sengor, e che hanno costituito, subito dopo la prima guerra mondiale, il cosiddetto “rinascimento nero”: il Black Reinassance. Uomini come Langston Hughes, Claude Mackay, Countee Cullen, Sterling Brown, ai quali si sono poi aggiunti altri come Richard Wright, e mi fermo qui… Perché occorre saperlo, o meglio, occorre ricordarsi che è qui, negli Stati Uniti, tra voi, che è nata la Negritudine. La prima Negritudine è stata la Negritudine americana. Noi abbiamo un debito di riconoscenza verso questi uomini, che occorre sempre ricordare e rivendicare ad alta voce.
Quale conclusione trarre da tutto questo discorso, se non che ogni grande ristrutturazione politica, ogni processo di ridefinizione degli equilibri sociali, ogni rinnovamento dei costumi è introdotto e preceduto dalla cultura, ovvero che ogni mutamento significativo è sempre anticipato da un agire preliminare riguardante la cultura.
Ma, mi si potrà obiettare, cosa dobbiamo farcene della famosa nozione di “Ethnicity”, che lei ha particolarmente messo in evidenza illustrando gli argomenti centrali di questa conferenza e sulla quale, d’altra parte, ci ha invitato a riflettere?
Per quanto mi riguarda, direi che la sostituirei volentieri con un’altra parola che ne è più o meno un sinonimo, ma che appare priva delle connotazioni inevitabilmente sgradevoli, poiché equivoche, a cui rinvia la parola “ethnicity”.
Non direi dunque “ethnicity”, ma “identity” (identità), un termine che, secondo me, indica meglio ciò che intende designare: ovvero ciò che è fondamentale, quello su cui si plasma e si può plasmare tutto il resto, il nocciolo duro e irriducibile, ciò che conferisce a un uomo, a una cultura, a una civiltà, la propria forma, il proprio stile e la sua irriducibile singolarità.
E allora, eccoci tornati al punto. In effetti, poiché ho parlato di un agire culturale preliminare, indispensabile a ogni risveglio politico e sociale, direi che anche questo agire, questa esplosione culturale da cui si genera tutto il resto, presuppone esso stesso un suo inizio: si dispiega quindi necessariamente a partire da un momento preliminare che in qualche modo lo prepara e che non è altro che l’esplosione di un’identità a lungo repressa, perfino negata, ma finalmente libera; di un’identità che proprio attraverso la sua liberazione si afferma in vista di un riconoscimento.
Ecco cosa è stata e cos’è la Negritudine: la ricerca della nostra identità, l’affermazione del nostro diritto alla differenza, l’imposizione a tutto il mondo del riconoscimento del nostro diritto e del rispetto della nostra personalità in quanto comunità.
So bene che questa nozione di “identità” è oggi contestata o combattuta da parte di coloro che fingono di vedere nella nostra rivendicazione un’ossessione identitaria, una sorta di autocompiacimento distruttivo e paralizzante.
Dal mio punto di vista, chiaramente, non è affatto così.
Io non penso a un’identità arcaicizzante, avida di se stessa, ma a un’identità desiderante il mondo, ovvero capace di fare tabula rasa del presente per poter rivalutare meglio il proprio passato e, ancor di più, preparare il suo futuro. Poiché, come si fa, in fondo, a misurare il cammino percorso se non si sa da dove si viene né dove si vuole andare? Pensateci. Noi abbiamo combattuto duramente, io e Senghor, la deculturazione e l’acculturazione. Ebbene, dico che voltare le spalle all’identità significa cadere ancora, consegnarsi, senza difese, a qualcosa che conserva tuttora la sua forza: l’alienazione.
Si può rinunciare al proprio patrimonio. Si può rinunciare all’eredità, certamente. Ma abbiamo il diritto di rinunciare alla lotta?
Vedo che di tanto in tanto diversi soggetti si interrogano sulla Negritudine. Ma, in verità, il problema oggi non è la Negritudine. Il problema oggi è il razzismo, la recrudescenza del razzismo del mondo intero, e cioè i focolai di razzismo che si riaccendono qua e là. Penso, in particolare, alle grandi fiammate di apartheid che incendiano il Sudafrica. È questo il problema. È di questo che ci dobbiamo preoccupare.
Dunque, è forse questo il momento di abbassare la guardia, di gettare le armi?
In realtà, il presente ci sta mettendo duramente alla prova, poiché ognuno di noi, ognuno di noi personalmente, si trova di fronte a un’alternativa decisiva: o sbarazzarsi del passato come se fosse un fardello ingombrante e sgradevole, che non fa che bloccare la nostra evoluzione, oppure assumerlo in modo virile, per fare di esso un puno di forza della nostra marcia in avanti.
Bisogna decidersi. Bisogna scegliere.
È proprio da scelte simili che nascono conferenze come la presente; come ha detto recentemente un mio caro amico, il dottor Aliker, a cui voglio rendere qui omaggio e che ha voluto accompagnarmi qui a Miami, sono scelte come queste a determinare il senso della nostra conferenza, a restituircene la sua possibile ragion d’essere.
Per noi, dunque, la scelta è fatta. Noi siamo tra quelli che si rifiutano di dimenticare. Noi siamo tra quelli che rifiutano l’amnesia come metodo. Non si tratta di una forma di integralismo, o di fondamentalismo, e ancora meno di guardarsi puerilmente l’ombelico. Noi siamo semplicemente dalla parte della dignità e della fedeltà. Mi sentirei di dire, dunque: far fiorire, non estirpare, il proprio ceppo.
Mi sembra certamente positivo che alcuni, ossessionati dalla nobile idea dell’universale, si rifiutino di accettare qualcosa che può apparire, se non proprio come una prigione o un ghetto, in ogni caso come una limitazione.
Per quanto mi riguarda, non ho una simile concezione punitiva e carceraria dell’identità.
L’universale, certo. Ma è ormai da molto tempo che Hegel ci ha mostrato il cammino da seguire: l’universale, chiaramente, non in senso negativo, ma piuttosto come approfondimento della nostra singolarità.
Mantenere la propria traccia sull’identità –credetemi, ne sono certo- non significa girare le spalle al mondo, staccarsi dal mondo, né tanto meno guardare con diffidenza l’avvenire o sprofondare in una sorta di solipsismo comunitarista o nel risentimento.
Il nostro impegno ha senso soltanto se si propone come un riradicamento, certo, ma anche come un’espansione, come un superamento, come la conquista di una nuova e più larga fraternità.
Testo tratto daL Discorso sul colonialismo (ombre corte, Verona, 2010). A CURA DE LA MACCHINA SOGNANTE, UNA RIVISTA DI SCRITTURE DAL MONDO. OGNI SETTIMANA FRONTIERE NEWS PUBBLICA UN ARTICOLO SELEZIONATO DALLA REDAZIONE DE LA MACCHINA SOGNANTE.
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