di Samuele Rizzoli
Il naufragio e la morte in mare sono i temi più ricorrenti nella poetica dei viaggi della speranza, assumendo significati metaforici diversi quali la fine del viaggio, l’infrangersi del sogno e il mare come cimitero. In parallelo a ciò, il sentimento che permea i versi è lo smarrimento, l’angoscia e il senso di naufragio interiore del poeta stesso. Dall’empatia e solidarietà, come ingredienti che animano il gesto poetico, traspare infatti la consapevolezza di dover dar voce al dolore personale di fronte a ciò che è avvertito come affondamento collettivo.
Dalla perdita di valori e umanità delle politiche inique e mortifere, dal senso di colpa fino alla profezia di una nemesi storica, emerge il concetto di doppio naufragio a indicare come ai naufragi nel mare corrisponda una perdita di direzione della civiltà occidentale, presagio di un affondamento morale delle coscienze.
Prospettiva espressa da Alda Merini in Coloro che arrivano qui, dove l’io lirico riconosce come la speranza che cercano i migranti sia la stessa ormai perduta in coloro che dovrebbero offrirla. Un «noi» tormentato, di un Occidente malato e solo, la cui speranza è già stata condannata.
Coloro che arrivano qui
sulle nostre sponde
già tormentate dal freddo
già malate e già sole
non sanno che in noi
le finestre di grande speranza
sono ormai chiuse.
Il mare diviene dunque simbolo della coscienza dolente di cui il poeta si fa portavoce, della vergogna per un’umanità che assiste disinteressata. I versi portano l’obbligo di esprimere un giudizio morale, così è per Gassid Mohammed che riconosce come «le nostre coscienze sono le rive di Lampedusa» in cui «scorgiamo i tratti dell’ultimo respiro della nostra umanità».
Sulle rive di Lampedusa
sono sdraiati i resti delle nostre coscienze gonfie.
Le rive di Lampedusa
sono il viso sfigurato, gonfio e mutilato della nostra umanità
oggi!
Un’umanità colpevole per la quale l’empatia si tramuta in senso di colpa esistenziale, come nella poesia di Patricia Quezada Sulla Spiaggia, dove non si conosce consolazione o si intravede alcun senso logico. Scaturisce un doloroso disincanto che rivela l’assurdità di un destino cieco nel quale il poeta riconosce la tragedia altrui come propria:
[…] Non esiste consolazione
non esiste scusa
per che io continui a vivere e tu no.
Non una ragione
Non una causa che possa avere fondamenta.
Soltanto l’assurdo, disincantato
destino cieco che ti ha donato la morte,
senza darti un paradiso.
Nulla di bello o di umano resta […]
Senso di colpa similmente espresso da Cristina Bove in Mea Culpa, dove l’autrice è invasa da un turbamento che la porta ad accusarsi, sentirsi complice e colpevole, solo temporaneamente in salvo dal naufragio che inevitabilmente colpirà la noncuranza.
[…] che non posso saperlo quel tormento
delle carni bruciate
o quanta acqua salata nei polmoni
prima di essere morti
ma so dell’inquiedutine che vivo a mio discapito
[…] ed io mi accuso
ma con la noncuranza di chi sa
d’esserlo_ almeno momentaneamente_
in salvo.
Parallelo al senso di colpa, si delinea dunque uno stato d’animo di sgomento e di impotenza. La presa di coscienza che al benessere del mondo occidentale corrisponda la morte di coloro che ne sono esclusi, fa sì che il poeta non trovi pace. E dell’impotenza che lo invade, lasciandolo immobile di fronte al perpetuarsi della tragedia, Annamaria Giannini scrive «Mi sento cadere di foglie e parole svendute / inutile, come un verso che non dice poesia».
I versi diventano antidoto per combattere l’indifferenza che si manifesta nel «passeggero sdegno collettivo», nel «cordoglio apparente», nel «retorico lutto nazionale», di un popolo italiano pronto a porgere «sentite condoglianze» solamente a tragedia avvenuta, mentre ipocritamente i respingimenti, i rimpatri, i naufragi, continuano a rappresentare eventi «speciali che sconvolgono i palinsesti». La poesia tenta una reazione, esprimendo la partecipazione emotiva di chi scrive, «affinché non si abissi la pietra dello scandalo».
[…] Queste morti ci chiedono di urlare
salvare altre vite, perché non sono
morti solo per il fuoco divampato
o l’onda del mare li ha inghiottiti.
Sono morti anche perché siamo indifferenti alla morte,
sono morti per scuotere le nostre coscienze.
Così, volendo restituire umanità, la scrittura si schiera contro quella concezione per cui, come si è visto, l’esistenza del migranti è ridotta a nuda vita biologica. È contro la disumanità dei calcoli statistici, dei discorsi economici, delle strategie politiche che si contrappongono i versi di Selam Kidane, Numero 92. L’autrice, dedicando la poesia a un’ipotetica giovane vittima del mare, vuole sapere il suo nome, il suo vero nome, per la necessità di rompere la catena razionale di numeri, delle conte, dei dati che parlano di uomini morti. «Mia luce», «mio eroe», «vittoria», «speranza» sono i nomi che la poetessa attribuisce, in contrasto al nome che gli è stato dato: numero 92.
[…] Forse ti ha chiamato col nome della terra in cui eri diretto.
Dimmi piccolo qual è il nome che tua mamma ti ha dato…
Perché io non posso sopportare che tu venga chiamato numero 92.
La poesia tesse l’esistenza del migrante e ricostruisce la sua storia per portare la testimonianza della morte non raccontata, in un disperato tentativo di restituire dignità ai corpi sommersi, di combattere l’indifferenza che porta all’oblio. Indifferenza che De Luca definisce «un torto contro il creato» perché essere indifferenti significa calpestare la morte, legittimare l’oblio e per cui l’espressione poetica diventa simbolo del «formato di combattimento e di resistenza delle letterature».[22]
Bietelihem Berhane intitola Indifferenza[23] i versi nei quali riconosce come il senso di indifferenza sia un male persino peggiore rispetto al dolore provato per i naufragi. Curarsi dall’indifferenza diventa un dovere ancora più urgente della compassione.
Ho il cuore lacerato dal dolore
il male devasta la mia anima
ho il dovere di curarmi dall’indifferenza.
Dopo aver assistito una tragedia sulla tragedia
non posso più stare a guardare
non ho più giustificazioni.
La poesia «parla dal silenzio e dal segreto per dare voce a chi non ne ha, e può farlo con la pronuncia precisa di chi si è senza strepito schierato dalla parte delle vittime, definitivamente». Di fronte al silenzio come macabro strumento con cui si trasmette l’indifferenza, il poeta sceglie di non essere complice, la sua voce calpesta l’oblio perchè come nota Pusterla, «nelle parole risuonano o tacciono la coscienza e la storia»: esse parlano «del loro silenzio, del loro intollerabile e non innocente silenzio». È il «silenzio del gorgo che si richiude sopra l’assassinio compiuto», quello dei «bambini scomparsi», delle «lingue ammutolite» , degli «ignoti ed insepolti». È il silenzio che diviene un «grumo di mestizia».
Da una ulteriore prospettiva però i migranti divengono invincibili, con le parole di Erri De Luca: «non benchè morti, ma proprio perché morti», essi divengono strumenti che sconvolgono le coscienze. Sangue sacrificale, quello dei migranti non versato invano, perché la loro storia «è il grande tema del contemporaneo, il racconto che strania e assorbe, l’evento irreparabile che in qualche modo va pur rammendato, il conflitto che va convertito in creazione, un trasbordo che deve divenire trasformo e trasformazione».
Quei resti, di «uomini e sogni / nei sacchi di plastica», sono recuperati dai versi poetici per far sì che il «gregge silenzioso dei respinti senza nome», quelli che Fabio Pusterla definisce «popolazione di involontari eroi», seppur sconfitti, appaia tanto più grande e dignitoso dei suoi meschini respingitori. La poesia dunque è il transito poetico e, scavalcando l’ostacolo che il mare rappresenta, costituisce un passo per sentirsi uniti nella stessa riva.
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