di Alessandro Pagano Dritto / @paganodritto
Ci sono giornalisti il cui nome rimane indissolubilmente legato ad alcune aree geografiche: paesi, regioni, continenti. Renato La Valle è uno di questi giornalisti e il suo nome è legato all’Impero Ottomano e a quello che ne fu il centro politico, la Turchia. Le sue corrispondenze, scritte come inviato del Giornale d’Italia sul finire del primo decennio del secolo scorso, sono state ora raccolte in un volume dal figlio Raniero.
Il contesto storico
Cronache ottomane di Renato La Valle. Come l’Occidente ha costruito il proprio nemico (Bordeaux Edizioni, Roma, 2016, pp. 278, 16 euro) può essere dunque considerato la testimonianza in divenire di uno dei momenti più concitati degli ultimi anni dell’Impero, poco tempo prima che la Prima Guerra Mondiale ne decretasse la scomparsa. La Valle, infatti, giunge in Turchia per la prima volta nell’agosto del 1908 – subito dopo, cioè, la rivoluzione di luglio dei Giovani Turchi – e vi resterà fino alle soglie della guerra italo-turca che segnerà, nel 1911, l’inizio della presenza coloniale italiana in Libia; il tempo sufficiente, dunque, per osservare da vicino le conseguenze di un cambio di potere che intende essere rivoluzionario, se è vero che la maggiore sfida di una rivoluzione non è tanto imporsi sul regime precedente, ma realizzare se stessa e le promesse fatte negli anni successivi all’imposizione.
In breve, gli episodi maggiori attraverso cui La Valle condurrà il lettore sono dunque i seguenti: i dissidi tra i Giovani Turchi e l’ala liberale della rivoluzione, il tentativo abortito di controrivoluzione ordito da liberali e islamisti con l’appoggio del Sultano nel 1909, la restaurazione del controllo e quindi la crisi con l’Italia. In mezzo, La Valle figlio approfondisce, arrivando a toccare anche e soprattutto i tempi dell’attualità, alcuni aspetti che trovavano già nelle cronache del padre i propri prodromi.
Un giornalista obiettivo, ma non imparziale: gli islamisti, i Giovani Turchi
Al di là, però, della spicciola cronaca, quello su cui converrà qui soffermarsi a vantaggio del lettore è il tipo di giornalismo che Renato La Valle conduceva dalla città di Istanbul, dove si era installato; descrivere quale fosse – o quale appaia oggi – il suo sguardo sulle vicende turche.
Tanto per iniziare, ci si accorge presto che La Valle non è un giornalista imparziale. E sia detto questo senza intento deleterio, confondendo l’imparzialità con l’obiettività: non mancano infatti certo, in queste cronache, esempi di come l’abruzzese – ché La Valle era nato in Abruzzo e aveva all’epoca poco più di vent’anni – fosse solito avvicinare e ascoltare tutte le parti del discorso politico, indipendentemente dalle proprie inclinazioni. E dunque non mancano interviste a personaggi di ogni credo o, al limite, sunti di opinioni anonime di varia origine e provenienza.
Ma il lettore è presto messo in guardia di quali siano, a livello d’opinione, le propensioni del giornalista. Si scopre per esempio che questi non nutre molta simpatia per gli islamisti, che nel 1909 tentarono di ribellarsi al potere rivoluzionario nel nome del Sultano; La Valle è infatti convinto, e lo dice più volte, che l’Islam rappresenti l’unica vera anima capace di identificare, al di là delle sue diverse etnie, la gran parte del popolo dell’Impero – e in particolare del popolo turco – ma anche che quest’anima sia la causa principale di quell’immobilità politica e culturale che impedisce ai pur vincenti Giovani Turchi, propugnatori di ideali culturali di origine europea, di avere un reale sostegno nel paese e specialmente nelle classi più povere e disagiate. È solo la frase di un islamista, onestamente riportata a riprova di quanto detto sopra, a costituire un estremo contraltare di questa convinzione, che per altro permane immutata: «voialtri in Europa […] avete un’idea assai falsa dell’islamismo e credete che il Corano sia un libro di retrogradi e d’immobili, mentre esso può far scuola di liberalismo a tutte le vostre Costituzioni e giunge sino al socialismo, quando non lo oltrepassa (articolo del 28.05.1909, p. 139)».
Questa idea dell’islamismo non impedisce per altro a La Valle di apprezzare gli sforzi condotti dai suoi seguaci nel contrastare un sistema che questi vedevano come ingiusto: l’uomo parla infatti di «sforzo eroico di un pugno di uomini devoti all’antico regime» (articolo del 24.09.1909, p. 116) e a proposito di una voce parlamentare isolata dopo la fallita controrivoluzione scrive di «un atto di coraggio in quanto fissa un punto di vista essenzialmente musulmano contro la retorica liberale e occidentalista» (articolo del 25.02.1910, p. 177). Espressioni a loro volta bilanciate dalle altre usate in occasione della rivolta armata e dei conseguenti disordini, quando i ribelli islamisti erano «una soldatesca acefala, fanatica, ubriaca del suo successo» (articolo del 16.04.1909, p. 92), «un esercito senza capi» i quali «credono di aver salvato la patria, e per essa la legge sacra! Invece hanno preparato l’ultimo sfacelo»: «Dio salvi la Turchia!» (articolo del 14.04.1909, p. 91), conclude significativamente il giornalista.
Simile trattamento è riservato ai Giovani Turchi, dei quali vengono ritratti pregi e limiti senza eccezione: La Valle è ovviamente ideologicamente più vicino a questi ultimi, ma non ne nasconde le inclinazioni dittatoriali specialmente dopo la controrivoluzione: lamenta per esempio «la censura dei giornali [che] continua più severa che mai» (articolo del 06.05.1909, p. 136) e soprattutto non si fa illusioni sulla loro liberalità nel giudicare i ribelli quando osserva «il terrore in tutti coloro che hanno guardato agli ultimi avvenimenti con poca simpatia» (articolo del 04.05.1909, p. 133). Ma la più grande pecca che La Valle vede nei Giovani Turchi rimane il loro scarso contatto con la realtà culturale in cui si trovano a operare: i Giovani Turchi – scrive il giornalista – «ai quali senza dubbio si deve il rinnovamento di questa torpida vita orientale e il trionfo della libertà, sono troppo di costumi, di sentimento e di religione europei perché non urtino la maggior parte dei turchi ancora ossequienti alla tradizione» (articolo del 04.05.1909, p. 132).
Il sentimento nazionalista
Renato La Valle appare dunque un giornalista assolutamente disincantato, onesto nel far trasparire le proprie personali posizioni così come a comprendere quelle altrui e dispensa ragioni e torti indipendentemente dalle sue preferenze. Non esita a schierarsi ideologicamente con un gruppo pur sapendolo lontano dalle ragioni della massa. È però forse un giornalista pienamente novecentesco quando svela al lettore anche il proprio acceso sentimento nazionale e, pur continuando la sua rigorosa descrizione obiettiva degli eventi, non nega le sue offese per i torti che vengono secondo lui fatti all’Italia o, peggio, al sentimento nazionalista italiano. Sentimento di cui appaiono pervasi tutti gli ultimi articoli e che si sintetizzerà almeno in questo passo tratto da un articolo riepilogatore del 1915:
«E la stessa Turchia, ove non eravamo né amati né temuti né considerati, si ingannò sul significato del nostro atteggiamento, mentre i giornali turchi affermavano con sprezzante jattanza che un pugno di riservisti turchi avrebbero avuto facilmente ragione, con una nuova Adua, degli italiani se, per insana follia, questi avessero osato di provocare il leone islamico. Ma a codesti increduli era sfuggito il risveglio della coscienza nazionale italiana insieme con l’elevamento industriale, economico e morale, ed era sfuggito che in occasione delle feste del cinquantenario dell’Unità nella primavera del 1911 si era chiesta una politica estera e una politica militare più moderna e intensa. Cosicché dunque la guerra italiana alla Turchia si presentava sotto la doppia forma di un importantissimo avvenimento nazionale e internazionale. Per questo chi come me visse quelle memorabili giornate a Costantinopoli, e la nostra azione seguì passo passo con ansia angosciosa, fra un alternarsi di speranze e di sconforti, non potrà mai dimenticarle» (articolo del 23.08.1915, pp. 235-236).
Non solo politica: gli articoli di colore e lo stile
Non esistono per altro solo articoli politici in questa raccolta di corrispondenze turche. In quei – rarissimi, in quei tempi di turbolenza – momenti in cui la politica non imponeva le sue ragioni su tutto il resto, La Valle sapeva anche scoprirsi un attento e persino, a volte, divertito osservatore della realtà turca. Senza qui voler anticipare nulla, il lettore curioso tenga a mente che articoli descrittivi come quello del 12 febbraio 1909 sul rito religioso sciita, del 13 febbraio (pp. 59-60) e del 7 dicembre 1909 sulla Camera dei deputati e del 17 luglio 1910 sulle abitudini dei vacanzieri di Istanbul sono tra quelli di più piacevole lettura e rimangono a testimoniare una realtà sociale che, necessariamente, almeno in parte non c’è più: più politico, ma ugualmente gustoso anche da un punto di vista squisitamente letterario, è l’articolo del febbraio 1919 sulla Turchia sconfitta dopo la Grande Guerra, che segna il ritorno di La Valle a Istanbul.
Dal punto di vista stilistico, si scoprirà che La Valle amava, di tanto in tanto, ritrarsi tra i personaggi descritti, così che si assiste a curiosi esordi in prima persona e a rapide pennellate di una o due righe che descrivono il giornalista tra la folla o seduto al bar, insomma immerso nella vita quotidiana; cosa che oggi risulterebbe, in un normale articolo di giornale, alquanto strana. Numerose, poi, le frasi di valore letterario o a effetto, disseminate negli articoli. Rimane forse memorabile, per la sua secchezza e incisività oltre che per il suo effetto straniante, il seguente esordio, direttamente rivolto ai lettori: «Quando questa lettera vi giungerà, forse il Sultano sarà stato costretto ad abdicare, sarà stato detronizzato, sarà forse fuggito, sarà forse anche morto» (articolo del 19.04.1909, p. 105).
Immagine di copertina: cittadini di Istanbul tra fine XIX e inizio XX secolo. (Fonte: www.f5haber.com)
Profilo dell'autore
- Il primo amore è stato la letteratura, leggo e scrivo da che ne ho memoria. Poi sono arrivati la storia e il mondo, con la loro infinita varietà e con le loro infinite diversità. Gli eventi del 2011 mi lasciano innamorato della Libia: da allora ne seguo il dopoguerra e le persone che lo vivono, cercando di capire questo Paese e la sua strada.
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