Patrícia Galvão è stata una femminista, scrittrice e giornalista, militante comunista e prima prigioniera politica donna del Brasile. Ripercorrendo la sua storia, i suoi viaggi e i suoi scritti, si vorrebbe sfatare miti e stereotipi costruiti su di lei: da quello della giovane ingenua, trasgressiva e ribelle, a quello di una “musa tragica”, disillusa dopo anni di carcere e delusioni della vita politica.
La storia e le opere di Patrícia Galvão (1910-1962) sono mal conosciute in Brasile e praticamente ignorate altrove (nessuno dei suoi scritti è mai stato tradotto in italiano). Femminista, scrittrice, instancabile traduttrice, disegnatrice, critica letteraria e teatrale, giornalista, corrispondente per tre giornali brasiliani durante il suo viaggio per il mondo (Stati Uniti, Giappone, Cina, Unione Sovietica, Germania e Francia), militante comunista imprigionata per cinque anni durante la dittatura Vargas, tra il 1935 e il 1940, una delle prime donne a sviluppare una forte critica del Partito Comunista Brasiliano da una prospettiva femminista che, precocemente, si differenziò dall’allora egemone femminismo borghese legato alla figura di Bertha Lutz.
Proprio per l’immeritato oblio in cui sono state per molto tempo confinate, la sua storia e la sua produzione suscitano particolare interesse e molte domande. In Brasile, solo a partire dagli anni Ottanta si cominciò timidamente a scrivere di lei e solo nel 2004 un’incredibile quantità di suoi documenti, foto e lettere vennero per caso ritrovati in un bidone della spazzatura di un quartiere di São Paulo (la donna che li trovò, percependo il valore storico del materiale, si preoccupò di raccoglierlo e depositarlo personalmente presso l’università di Campinas).
In Brasile le narrazioni della sua biografia assunsero però, fin dall’inizio, contorni mitologici tanto da ostacolare una reale e più complessa valorizzazione della sua traiettoria intellettuale. Da un lato divenne celebre l’immagine libertaria della giovane e affascinante “Pagu” – pseudonimo di successo con cui fu soprannominata dal poeta modernista Raul Bopp – donna provocatrice e anticonformista rispetto alle regole conservatrici degli anni Venti e Trenta, icona di trasgressione destinata a essere “glamourizzata” in mini-serie televisive, spettacoli, canzoni, insegne di negozi; dall’altro la sua figura venne associata a quella di una “musa tragica della rivoluzione”, come la definì il poeta Carlos Drummond de Andrade, donna matura e malinconica, militante sconfitta e disillusa in età adulta tanto da tentare più volte il suicidio (visione che finì sia per confermare, come da copione, l’idea di un’incosciente giovinezza ribelle domata ed educata nell’età “matura”, sia per rileggere la sua storia riconducendola al modello classico della fragilità, fisica ed emotiva, attribuita per natura al proprio essere donna). Queste due narrazioni si svilupparono parallelamente – molto spesso si combinarono, come nel film Eternamente Pagurealizzato da Norma Bengell – mitizzando l’“intrigante personalità” a discapito di un interesse reale per la sua produzione e la sua complessa esperienza di vita che avesse l’intento di non perderne le eredità e l’attualità per la riflessione presente. Persino molte ricerche condotte più recentemente non sono immuni dal riproporre queste visioni stereotipate.
Chi scrive, lungi dal credere che una storia di vita sia ricostruibile secondo precise categorie sintetizzatrici, pensa che siano molte, mutevoli e contraddittorie le anime – e i demoni – che abitano ciascuno. Sicuramente molte quelle di Patrícia Galvão.
“Eh Pagu eh!”, recitano i versi scritti dal poeta Raul Bopp a lei dedicati, i versi che le conferirono il famoso soprannome. “Passa e mi attira con gli occhi, provocantissimamente”. Le evocazioni più note della giovane Pagu celebrano, infatti, la sua sensualità incantatrice. A soli diciotto anni, nel 1929, già frequentava il gruppo di artisti modernisti che diede vita al movimento culturale dell’Antropofagia e che aveva precedentemente contribuito a organizzare, insieme a molti altri artisti, la Semana de Arte Moderna del 1922. Il famoso Manifesto Antropófago dello scrittore modernista Oswald de Andrade, che inaugurerà il movimento, venne pubblicato nel primo numero della Revista de Antropofagia, creata per diffondere le nuove idee avanguardiste. Dopo i primi dieci numeri, la rivista venne riformulata e Pagu cominciò a collaborare come disegnatrice. Nel giugno dello stesso anno partecipò a un grande evento nel Teatro Municipale di São Paulo in cui recitò poemi modernisti, incluso uno scritto da lei che diverrà parte del suo primo libro di poesie illustrate Álbum de Pagu: Nascimento, Vida, Paixão e Morte.
In questa fase l’immagine della giovanissima e appariscente Pagu oscilla da quella di una Musa ispiratrice a quella di un’irriverente mascotte la cui vivacità esaltava le atmosfere dei saloni di discussione paulisti. Furono in particolare Oswald de Andrade e la sua compagna dell’epoca, la pittrice Tarsila de Amaral, a coinvolgerla nel movimento, tanto che l’artista Flavio de Carvalho non esitò a definirla “bambola” personale della coppia d’artisti.
L’attenzione di Oswald de Andrade non era però disinteressata: dopo essersi separato da Tarsila, sposò Patrícia e nel 1930 nacque il loro figlio Ruda. Relazione ritenuta scandalosa per la loro differenza di età (Oswald, già padre, aveva vent’anni più di lei), fece parlar molto di sé; l’anticonformismo che la caratterizzò da molti punti di vista non la rese però libera da sofferenze sulle quali Patrícia riuscirà a scrivere approfonditamente anni dopo la loro separazione.
Appena pochi mesi dopo il parto, Pagu riprese l’attività di giornalista e decise di partire per l’Argentina, staccandosi dal bambino, rimasto con il padre. Il pretesto era un convegno di poesia, l’obiettivo reale era invece quello di intervistare il comunista Luís Carlos Prestes, rifugiato a Buenos Aires, a cui doveva consegnare una lettera. Racconta di questo lungo incontro come di una folgorazione: “Prestes mi mostrò la purezza della convinzione” (lo rincontrerà, in Uruguay, un anno dopo). Tornando in Brasile, nel dicembre dello stesso anno, si iscrisse al Partito Comunista e nel marzo del 1931 fondò, insieme a Oswald, il giornale O homem do povo, d’ispirazione comunista. Scriveva articoli, faceva disegni e vignette e curava la rubrica A mulher do povo in cui trattava tematiche relative alla sessualità, attaccava la morale sessuale dell’epoca e il femminismo elitista delle classi dominanti in nome del materialismo storico, sostenendo che solo la trasformazione globale delle relazioni sociali avrebbe ridefinito le condizioni mentali e materiali della società che vincolavano la donna all’inferiorità. Il giornale durò appena otto numeri, la polizia ne vietò presto la circolazione.
Nello stesso anno, come militante comunista, cominciò a partecipare alle assemblee dei lavoratori del porto nella città di Santos. Da loro fu scelta come principale oratrice per il comizio dello sciopero previsto il 23 agosto (data indetta anche per rendere omaggio alla memoria di Sacco e Vanzetti, condannati a morte lo stesso giorno di pochi anni prima). La situazione precipitò quando la cavalleria della polizia intervenne per bloccare il comizio e represse brutalmente i manifestanti. Uno dei lavoratori, a cui lei era più legata, le morirà tra le braccia, ferito da un colpo d’arma da fuoco; lei venne arrestata subito dopo: era la prima volta che, in Brasile, una donna veniva incarcerata per motivi politici. Diffamata dalla stampa di tutto il Paese, non trovò neanche il sostegno del suo partito che, al contrario, ne prese le distanze definendola “agitatrice sensazionalista e inesperta” e obbligandola a firmare, prima del suo rilascio, un documento in cui attribuiva solo a se stessa la responsabilità di quanto avvenuto quel giorno.
Nonostante la delusione, il suo impegno con il PCB continuò perché si convinse che restare era un sacrificio necessario per un fine ben più grande. L’anno successivo, separandosi di nuovo dal figlio, si trasferì a Rio de Janeiro proprio per volere del Partito: “L’organizzazione richiedeva la proletarizzazione di tutti i suoi membri […] Il prezzo da pagare era il mio sacrificio di madre […] rassegnarmi alla mancanza di notizie di mio figlio.” La maternità fu per lei un’esperienza tumultuosa, subordinata ai disegni e all’agenda del Partito, in assoluta disobbedienza delle convenzioni familiari e dei bisogni materni, non senza molte sofferenze e altrettante condanne. Ma, scrisse, “La necessità della lotta nacque attivando tutta la rivolta latente della mia vita insoddisfatta”. Passando a vivere in dormitori, cominciò a lavorare prima come proiezionista nelle sale di cinema, poi come operaia nel settore tessile e infine in quello metallurgico, fin quando non ebbe un pesante incidente sul lavoro e fu obbligata a curarsi e tornare a São Paulo. Le sensazioni raccontate dell’intensa esperienza di proletarizzazione richiamano moltissimo quelle di Simone Weil sul suo lavoro nella fabbrica della Renault, tra il 1934 e il 1935.
Senza sosta ricominciò a dedicarsi alla scrittura. Nel 1933 pubblicò il suo primo romanzo operaio, Parque Industrial, usando però lo pseudonimo di Mara Lobo, ancora una volta per volere del Partito.
Il romanzo racconta le condizioni di vita e lavoro degli operai – in particolare delle operaie – delle industrie del quartiere Brás di São Paulo, abitato principalmente da immigrati (quartiere in cui lei stessa visse fino a 16 anni). Strutturato quasi cinematograficamente, il testo è un susseguirsi di scene e frammenti che testimoniano il dramma della condizione femminile e operaia rivelata tramite personaggi come quello di Corina, licenziata per essere incinta, Matilde, buttata fuori per essersi rifiutata di “andare nella stanza del Capo”, Ming, costretta a “servire il tè con i baci al padrone”, e molte altre disgraziate, straziate da aborti clandestini o condotte all’omicidio per la disperazione.
L’indignazione violenta per l’ingiustizia, le denunce e accuse d’ipocrisie hanno precisi bersagli politici -“Tirano dal nostro seno l’ultima goccia di latte togliendola ai nostri figli, per vivere nello champagne e nel parassitismo”-. La scrittura è esposizione brutale dello sfruttamento, incitazione alla ribellione – “Che importa morire per un proiettile invece che morire di fame?” –, sfida ai miti di armonia brasiliani – “Il carnevale continua. Soffoca. Inganno degli sfruttati. Dei miserabili. Gli ultimi 500 Reais nell’ultimo bicchiere”– e sfida ai miti di coesione nazionale – “Patria… frode! Chi non ha patrimonio non ha patria!”. La guerra… frode! Difendere cosa? La proprietà dei ricchi?”-. In questo primo romanzo c’è tuttavia ancora molta fiducia nel Partito come guida e organizzazione capace di condurre alla rivoluzione sociale.
L’ARTICOLO È PARTE DEL 6° NUMERO DE LA MACCHINA SOGNANTE, UNA RIVISTA DI SCRITTURE DAL MONDO. OGNI SETTIMANA FRONTIERE NEWS PUBBLICA UN ARTICOLO SELEZIONATO DALLA REDAZIONE DE LA MACCHINA SOGNANTE.
Profilo dell'autore
- Dal 2011 raccontiamo il mondo dal punto di vista degli ultimi.
Dello stesso autore
- Nord America19 Dicembre 2024La vita straordinaria di Elizabeth Miller, da Vogue a reporter di guerra
- Europa19 Dicembre 2024La doppia vita di Solomon Perel, nella Hitlerjugend per sopravvivere all’Olocausto
- Centro e Sud America18 Dicembre 2024Le tre sorelle che hanno fatto cadere il dittatore dominicano Trujillo
- Oceania18 Dicembre 2024Come i Māori hanno salvato la loro lingua dall’estinzione
[…] In conclusione, l’attività di autrice di Donna Brazile ha arricchito il dibattito politico negli Stati Uniti e ha contribuito a promuovere una maggiore consapevolezza dei temi politici e sociali. I suoi libri hanno avuto un impatto duraturo e continuano ad essere letti e discussi da persone di tutto il mondo. [17][18][19][20] […]