Aiutare, sostenere e proteggere le donne maltrattate non è sufficiente per contrastare la violenza da parte dei partner maschili. Servono investimenti massicci sui centri di intervento per uomini violenti, lo dicono i dati. Eppure secondo una parte del mondo femminista intervenire sugli uomini non è prioritario.
Nel 2002 Juan J. Medina scriveva che «aiutare la vittime non impediva che il maltrattante potesse continuare a comportarsi in modo violento nelle relazioni con le successive partner». L’anno successivo sarebbero stati poi Rothman, Butchart e Cerdà a dire che l’intervento sugli uomini maltrattanti nelle relazioni d’intimità abbia ricevuto, rispetto al lavoro di sostegno e tutela per le vittime di violenza, molta meno attenzione sia da parte degli organismi pubblici che dal terzo settore e gli ambienti accademici.
In effetti l’importanza dei programmi di intervento per uomini violenti nei confronti di compagne (o ex) è stata riconosciuta ufficialmente dall’ONU solo alla fine degli anni ’90 attraverso la Piattaforma d’azione di Pechino. Del resto la consapevolezza della necessità di sviluppare progetti di questo genere è recente: solo nel 1977, infatti, prendeva vita a Boston Emerge, il primo programma volontario per uomini violenti. Nell’81 a Duluth era seguita l’apertura di un secondo centro.
Secondo la criminologa Laura Baccaro, direttrice della Rivista di Psicodinamica Criminale nonché fondatrice e presidente dell’Associazione Psicologo di strada di Padova, il tema degli interventi per gli uomini maltrattanti è da leggere innanzitutto nella prospettiva di uno sviluppo globale delle tutele e del riconoscimento dei diritti.
Dal punto di vista normativo, poi, non esiste un’omogeneità tra i paesi europei e tanto meno con quelli di common law: bisogna correlare piuttosto – suggerisce Baccaro – gli interventi concreti con la normativa di ogni paese e con le raccomandazioni e le ratifiche che gli stati hanno fatto.
Restringiamo quindi la lente al caso italiano; ma prima di soffermarci sull’aspetto istituzionale-giudiziario di un paese che non sa mai arrivare puntuale agli appuntamenti più importanti, vale la pena focalizzare la nostra attenzione su una forma mentis diffusa anche tra le donne. Una modalità di pensiero che accomuna molte di quelle donne che più di altre si proclamano i porta vessilli dei diritti (leggete il termine nel senso più polisemico possibile) del genere femminile. Una forma mentis che collabora a tenere impigliata l’Italia a un regresso stagnante.
Spiega Baccaro: «Per la lettura prettamente femminista dei centri antiviolenza non è possibile alcun intervento sugli uomini, in quanto la causa della violenza è nel patriarcato e nella cultura politica e sociale che lo alimenta».
La domanda è: un programma di quel tipo sarebbe quindi in grado di evitare o diminuire quantomeno il rischio di una recidiva? Secondo le statistiche, sì e non solo.
Dobbiamo convincerci dunque che la tutela delle donne vittime di violenza non basta: aiutare, sostenere e proteggere la donna maltrattata non è sufficiente per salvare la prossima compagna del suo (ex) coniuge. Se l’autore di violenza non riceve alcun aiuto rieducativo avrà molte più possibilità di perpetrare i suoi atti con chiunque altra. Ed è qui che ci colleghiamo nuovamente a quanto detto quindici anni fa da Medina. Ma chissà quanti anni dovremo ancora aspettare per far sì che l’Italia si svegli da un torpore pluridecennale.
In uno dei più celebri romanzi di Simone De Beauvoir, Le deuxième sexe (“Il secondo sesso”), si legge che se la donna si trova in una condizione di subordinazione, deve ricercarne la responsabilità sì nell’uomo che l’ha posta su quel gradino più basso, ma soprattutto in se stessa in quanto essere che si assoggetta a ciò che la sottomette. Accettare senza ribellarsi.
Magari in questo caso non si accetta, ma nemmeno ci si ribella abbastanza. E per ribellione in questo casi intendiamo una piccola rivoluzione copernicana che non porti più a pensare che rieducare l’autore di violenza sia quasi come stare dalla sua parte. Si prendano le ben stilate ragioni dell’iniziativa Non Una di Meno dello scorso 8 marzo. Nella pagina italiana dedicata all’iniziativa si fa riferimento ai punti elaborati durante l’assemblea nazionale di Bologna, tenutasi gli scorsi 4 e 5 febbraio: precisamente si chiedeva “di scioperare contro la trasformazione dei centri antiviolenza in centri assistenziali”, “la piena applicazione della convenzione di Istanbul contro la violenza maschile”, “la tutela della salute sessuale delle donne in ogni suo aspetto”, “la necessità di una cultura e di una formazione libere da stereotipi”, “una comunicazione che sappia raccontare le differenze e che non si appiattisca sulla vittimizzazione o spettacolarizzazione delle donne vittime di violenza”, “il tema dell’accoglienza delle persone migranti”, “infine, lo sciopero per le condizioni lavorative che discriminano le donne”. Un repertorio piuttosto vasto, tuttavia con una pecca: nessun riferimento o proposte sul miglioramento e aumento dei centri di intervento per uomini violenti.
Il primo centro europeo dedicato agli uomini violenti è nato in Germania oltre un decennio dopo quello americano. In Italia, prevedibilmente, il primo centro è stato inaugurato solo nel 2009, a Firenze. Ben 32 anni dopo quello di Boston. «I collettivi femministi non hanno mai aderito» – spiega Baccaro – «all’idea di agire sugli uomini, ma solo a livello collettivo e sociale, cioè mediante azione politica e culturale».
Oltretutto, i (magri) fondi regionali ai centri antiviolenza sono dedicati esclusivamente all’attività sulle donne maltrattate. Del resto, l’elenco completo dei centri che accolgono uomini violenti nei confronti delle donne (pubblicato da LeNove studi e ricerche sociali e aggiornato al 15 gennaio 2017), parla chiaro.
In Italia i centri antiviolenza cominciano a fiorire già dagli anni ‘60 e oggi superano le duecento unità, inclusi i centri di assistenza telefonica. Secondo l’elenco di LeNove, invece, i centri per gli uomini violenti attivi oggi sono appena 44.
Ma non è tutto. Vi sono delle discordanze regionali e interregionali non poco notevoli: solo nella provincia di Milano ci sono quattro centri, mentre nella regione più vasta d’Italia, la Sicilia, ve n’è solo uno, a Palermo. Non è difficile dedurre quanto poco invitante sia per un uomo di Catania spostarsi di 210 km per una rieducazione di cui forse è anche incerto. Ancor peggio per la Valle d’Aosta, Calabria, Marche, Basilicata e Molise, in cui di centri specializzati per gli uomini violenti non vi è nemmeno l’ombra.
Perché queste zone grigie? è solo colpa dei fondi insufficienti? Della poca attenzione dedicata a progetti di questo tipo? O per mancanza di denunce? Secondo la dottoressa Baccaro le denunce hanno poco a che fare con i centri, considerando soprattutto che – in Italia – la partecipazione ai programmi, esclusivamente volontaria, è prevista indipendentemente dalla commissione di atti o reati, e/o querele. Per quanto riguarda la Sicilia, è una regione a statuto speciale in cui «il problema della violenza di genere è poco sentito, figuriamoci quello degli uomini che commettono violenza». Anche il Trentino-Alto Adige è regione autonoma, ma in questo caso è stato finanziato uno dei primi centri: il secondo a livello nazionale, per la precisione, dopo uno in Toscana.
In generale – come si legge nella Rivista di psicodinamica criminale – esistono due tipi di adesione a questi programmi di rieducazione: obbligatoria (o invio dal Tribunale) e volontaria. Nel primo caso l’interessato ha la possibilità di scontare la pena proprio attraverso la partecipazione ad un programma rieducativo; nel secondo caso, invece, anche in mancanza di denuncia o di un atto violento, l’autore di violenza decide, spontaneamente, di ricevere aiuto da un centro specializzato.
In Italia come funziona? Secondo l’avvocatessa penalista Annamaria Alborghetti, ex presidente della Camera Penale di Padova, «elevare le pene non risolve nulla. L’inasprimento penale non ha mai portato alla risoluzione del problema che sta dietro ai comportamenti illeciti, e questo è un dato statistico». Sulla base degli atti persecutori e delle pene indicate dall’art. 612 bis del Codice Penale, l’avvocatessa crede che «una pena di cinque anni impedirebbe all’imputato di accedere, ad esempio, all’istituto di sospensione del processo con messa alla prova». Introdotto con la Legge n. 68 del 28 aprile 2014, l’istituto a cui fa riferimento Alborghetti è entrato in vigore nel nostro ordinamento il 17 maggio dello stesso anno: «Per tutti quei reati che sono puniti con una pena massima non superiore ai quattro anni, l’imputato può chiedere (prima del processo) la sospensione del procedimento con la messa alla prova. Viene dunque predisposto un programma con l’UEPE (Ufficio per l’Esecuzione Penale Esterna). Un programma che generalmente prevede lavori di pubblica utilità della durata che può variare da mesi a anni, a dipesa della situazione in cui si trova l’imputato. Voglio sottolineare però che non si tratta di un progetto rieducativo, ma di una legge».
Quindi, se alla fine del programma, il giudice ritiene che l’esito si è dimostrato positivo, l’imputato evita la pena in carcere. Questa, secondo l’avvocatessa, rappresenterebbe una risoluzione nettamente migliore alla pena alta; risoluzione che oltretutto, come percorso di scelta dell’imputato, sarebbe molto diffusa, a quanto pare.
Per quanto riguarda i fondi, tutto dipende infatti esclusivamente dalle regioni e dai comuni. A livello nazionale non sono previsti finanziamenti. Il problema va a trovarsi, secondo la Dott.ssa Baccaro, solo nel ventaglio delle scelte amministrative. Scelte ignorate o rimandate o svilite dato che, peraltro, “fa più notizia” l’investimento di denaro sui centri antiviolenza per le donne rispetto alle attività di prevenzione. In aggiunta, la formazione dei professionisti è carente: mancano linee guida e punti riconosciuti come esigenze. Tutto è in mano alla buona volontà e alla presa d’iniziativa individuale del personale. Ci basa in gran parte, verrebbe da dire, sull’improvvisazione: «Sembra che sia sufficiente essere laureati in psicologia e specializzati in psicoterapia. Alcuni si tuffano nelle mode e appena concluso il progetto, ovvero finiti i fondi, tolgono il servizio» continua Baccaro. Nulla sembra muoversi, se non in casi sporadici: «L’unico progetto rieducativo e trattamentale “vero” dedicato ai sex offenders è quello del carcere di Bollate, che peraltro tempo fa aveva chiuso i battenti», chiosa la Dott.ssa Baccaro.
L’avvocatessa Alborghetti, dal canto suo, ritiene che se è vero che l’educazione al genere e al rispetto sin dalla scuola materna può svincolarci da una base culturale che stenta a sradicarsi, d’altra parte i programmi d’intervento per gli uomini maltrattanti riducono sul serio il rischio di una recidiva. Ad esempio, il modello d’intervento spagnolo – il Programa Contexto, figlio di una legge approvata nel 2004 – è ritenuto il più rivoluzionario a livello europeo. Non ha solo portato a una diminuzione del fenomeno nel corso degli anni (passando da circa 2.300.000 violenze sulle donne in ambito familiare nel 1999 a 1.800.000 nel 2006), e a un aumento di donne che hanno trovato coraggio a denunciare. Secondo le indicazioni del Servizio Sociale Penitenziario, dal 2006 al 2010 sono stati invitati al programma 319 uomini: di questi, 109 hanno completato del tutto il programma. Nessuno di questi 109 è stato nuovamente denunciato.
Tutela e prevenzione non sono sinonimi, ma due scopi che devono camminare di pari passo. E se l’Italia ha ancora tanto da lavorare, diversamente non può dirsi per gli italiani e le italiane.
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