La Cina rappresenta un laboratorio politico, socioeconomico e culturale di indubbio interesse. Sono molti i contributi di studiosi e ricercatori di livello internazionale che hanno messo in evidenza le contraddizioni crescenti che il modello ipercapitalistico adottato ormai da alcuni decenni impone e le conseguenze molto spesso drammatiche che ne derivano (i numeri vertiginosi di suicidi alla Foxconn, solo per fare l’esempio più famoso). Cosa consente al modello cinese di essere così stabile, di avere un’economia ancora in forte crescita, di superare crisi che in altre parti del globo hanno condotto a capovolgimenti radicali e violenti delle strutture statali esistenti è quello che Christopher Connery mette in evidenza in questo articolo tradotto sulla new left cinese, a cui si è cercato di aggiungere qualche elemento introduttivo.
Presentiamo qui tradotto l’articolo che Christopher Connery ha scritto per China Policy Institute, dal titolo The Chinese left: contexts and strategies.
Si tratta di un’analisi seria e ben documentata della new left cinese, delle sue peculiarità storiche e socio-culturali, del rapporto con la “sinistra” ufficiale e quindi con le strategie e le relazioni di potere che sottendono al modello di sviluppo intrapreso con le riforme degli anni Ottanta e le sue molteplici conseguenze.
La ricchezza dei temi trattati da Connery nello spazio di un articolo – anche relativamente breve, tra l’altro, denotando una competenza molto alta sui temi stessi – è tale da stimolarci surrettiziamente una invasione pacifica di campo, per cercare di mettere in evidenza alcuni aspetti che ci sembrano meritevoli di un ancor più breve e parziale approfondimento.
Innanzi tutto un aspetto che, pur non trasparendo immediatamente dall’articolo, pare necessario evidenziare per provare a cogliere la pienezza del presente, per usare una definizione foucaultiana, di cui parla Connery. Per farlo, prendiamo a prestito le parole di Wang Hui, uno dei massimi esponenti della new left, in un’intervista tradotta e pubblicata su Euronomade.
Wang si chiede quali siano le cause per le quali, se vi è una transizione del modello di riferimento di sviluppo in Cina, questa si inquadri in logiche di “riqualificazione” e “aggiornamento” del modello stesso, ben lontano, quindi, da tutto quanto ha costituito la base dei movimenti in Occidente negli anni Novanta e oltre, tra i quali certamente il movimento occupy, fondati, al contrario, sulla radicale messa in discussione dei modelli dominanti, tanto a livello politico, quanto economico e socio-culturale, o dei processi rivoluzionari che hanno investito buona parte del Nord Africa e Medio Oriente. Perché questo non è avvenuto e non avviene in Cina? Certamente non per mancanza di contraddizioni e conflitti negli stessi ambiti sopra indicati. Utilizzando argomenti controintuitivi, Wang non va a cercare la ragione in quello che, forse un po’ superficialmente e semplicisticamente, sarebbe lecito attendersi: il sistema repressivo e preventivo non consente il sorgere di movimenti di questo tipo.
Wang individua due ragioni, che descrive in questo modo: “in primo luogo, il fatto che la Cina è vasta e che le regioni si siano sviluppate in modo non uniforme ha ironicamente agito come un tampone nel contesto della crisi finanziaria. La disparità regionale, la disparità rurale-urbana, la disuguaglianza tra ricchi e poveri e così via, hanno tutte predisposto spazi di adattamento. In secondo luogo, la Cina ha vissuto effettivamente, nel corso degli ultimi dieci anni, in un costante processo di adeguamento/adattamento. Questo adeguamento risulta da una serie di pratiche sociali, tra cui manovre interne, lotta sociale, dibattito pubblico, cambiamenti politici, esperienze locali e così via. Gli esperimenti sociali e i dibattiti sulle diverse modalità di sviluppo continuano nella società cinese. Questo indica che vi è ancora la possibilità di auto-dirigersi, di una riforma autonoma. Ma dal momento che la situazione sta cambiando così rapidamente, se l’azione in questa direzione non ha presa immediata, questa possibilità potrebbe essere fugace e scomparire rapidamente.” Questa interessante lettura del contesto cinese trova, poco oltre nella lunga intervista, un ulteriore arricchimento dell’analisi svolta: “Il conflitto sociale in Cina può intensificarsi, non perché il paese è sul punto di crollare, ma perché si sta spostando verso l’alto nel sistema mondiale. L’acuirsi del conflitto sociale è proprio il risultato di questo processo”.
In estrema sintesi, quello che Wang mette in risalto si potrebbe così riassumere: le enormi e crescenti disparità all’interno del continente cinese sono tali da limitare le conseguenze di crisi economico-finanziarie sull’assetto generale del paese; questo, pur orientato da logiche sviluppiste aggressive e feroci, non ha impedito il sorgere di esperienze e pratiche che, senza mettere in discussione l’impostazione di base del modello stesso (come dice molto chiaramente anche Connery), danno l’idea di un fermento di azioni di ricerca di pratiche socialiste, di auto-organizzazione. Dove questo potrà condurre è difficile da dirsi: lo sviluppo continuerà (per almeno altri vent’anni, prevede Wang), anche se meno impetuoso dello scorso decennio, e con esso si acuiranno le disparità e i conflitti sociali. Se quelle azioni non si consolideranno, se non faranno “sistema”, potranno scomparire velocemente.
Tra le esperienze di maggior rilievo, e con maggior eco in Occidente, c’è il modello di Chongqing di Bo Xilai. Si tratta certamente di un modello virtuoso e molto innovativo che si è articolato lungo un quinquennio, fino al 2012: basti pensare che ha modificato uno dei capisaldi del rapporto tra popolazione urbana e popolazione rurale, concedendo ai migranti rurali verso i centri urbani gli stessi diritti di accesso ai servizi, riservati da sempre ai cittadini urbani, sulla base di un sistema molto antico (Hukou). Investimenti in edilizia popolare, sostegno alle piccole e medie imprese estensione dei diritti ai migranti rurali e lotta alla malavita organizzata: su questi punti sembrava che il modello Chongqing potesse marcare un punto di svolta nell’auspicato processo di riforma economica e politica cinese. La conclusione è stata ben diversa, con Bo Xilai in carcere.
Questo essere la nuova sinistra cinese sostanzialmente interna al sistema politico, ideologico ed economico che connota l’establishment statale rappresenta, come lo stesso Connery sottolinea, un’importante anomalia nel panorama internazionale[i].
Tale anomalia fa dire allo studioso americano che la nuova sinistra cinese continuerà ad esistere nei prossimi vent’anni, probabilmente indebolita rispetto a quanto ha espresso nell’ultimo decennio. Si tratta di una posizione condivisa da Wang Hui, anche se questi lega la possibilità di proseguire nella sperimentazione di nuove forme di organizzazione socio-culturale, economica e politica alla capacità che le stesse hanno di consolidarsi nei territori dove trovano applicazione e sostegno.
LEGGI: La sinistra cinese: contesti e strategie di Christopher Connery
[i] Su questa collocazione della new left cinese, si veda anche l’importante ed esaustiva analisi pubblicata in due parti su New Bloom. Prima parte e seconda parte.
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