Il 29 luglio 2013 veniva rapito il gesuita romano a Raqqa, in Siria. Una vita dedicata al dialogo, unica via per disinnescare la trappola dell’odio fondamentalista
di Valerio Evangelista*
“La Chiesa ha rifiutato lo scontro di civiltà che accomunava Samuel Huntington e al Qaida. E questo, evidentemente, è diventata una colpa da espiare”. Così Andrea Riccardi commenta l’assassinio di Padre Jacques Hamel, in un articolo uscito sull’Espresso (“Cristiani mai in guerra”, a firma di Marco Damilano).
Il fondatore della Comunità di Sant’Egidio – cattolico, storico e profondo conoscitore dell’Islam – ricorda che nel 2016 si è celebrato il trentennale dell’incontro ecumenico di Assisi, e propone un ritorno a quello spirito. “Oggi la sfida è tornare a quella strategia. Non accettare la violenza. Sapere che c’è un’Islam che odia e un Islam che cerca l’amicizia e che sente l’onta di gesti che profanano la vita e un tempio dedicato al culto”.
Sono tante le storie di sacerdoti che hanno pagato a caro prezzo il proprio stile di vita fedele ai dettami del Vangelo.
“Il Vangelo propone una logica di speranza. La logica della carità in tutto e nonostante tutto. Ed è più forte della morte” – Padre Paolo, 2011
Come l’86enne Jacques Hamel, sgozzato l’estate scorsa fa durante una messa nella sua parrocchia in Normandia, come i giovanissimi sacerdoti iracheni Wasim Sabieh e Thaier Saad Abdal, morti nell’attentato che nel 2010 ha colpito la Cattedrale siro-cattolica di Baghdad, oppure come don Andrea Santoro, freddato in Turchia dalla pistola del 16enne Ouzhan Akdil. La lista sarebbe molto lunga.
E oggi non possiamo non ricordare Padre Paolo Dall’Oglio. Abuna Paolo si trovava a Raqqa per trattare la liberazione di un gruppo di ostaggi. Dal 29 luglio 2013 si sono perse le sue tracce, l’ipotesi più verosimile è che sia stato rapito da un gruppo di estremisti islamici vicino ad al Qaida.
Una vita spesa per il dialogo
Negli anni ’80 il gesuita romano ha rifondato la comunità monastica cattolico-siriaca Mar Musa nel deserto a nord di Damasco, dove nel 1992 fonda la comunità ecumenica al-Khalil (in arabo «l’amico», con cui si indica il patriarca Abramo) che promuove il dialogo islamico-cristiano. Il suo trentennale attivismo per l’abbattimento dei muri di diffidenza reciproca e per la costruzione di ponti di dialogo, è stato il motivo per cui il regime siriano lo ha espulso dal Paese mediorientale, nel 2012.
Dal 2011 Padre Paolo, che ha speso gran parte della sua intensa vita insieme al popolo siriano, si è infatti impegnato a formulare – insieme ai suoi “concittadini adottivi” – proposte di soluzioni pacifiche alle questioni sollevate dalle rivolte sviluppatesi in Siria. Tra i punti proposti anche una transizione politica verso un’architettura istituzionale democratica e il raggiungimento del consenso delle diverse componenti sociali e delle varie sensibilità religiose che coabitano in Siria.
“Lei sa meglio di chiunque altro quanto il terrorismo islamico internazionale sia soprattutto uno dei molti canali di illegalità del traffico di droga, di armi, di organi, di esseri umani, di capitali e di materie prime”. Queste parole, scritte nel 2012 da Paolo Dall’Oglio in una lettera a Kofi Annan, sono costate al gesuita romano l’espulsione definitiva dalla Siria.
“Solo passando dall’islamofobia all’islamosofia”, scriveva Dall’Oglio su SiriaLibano nel 2012, “dall’odio alla saggezza, eviteremo l’afghanizzazione della Siria”. Islamosofia, ovvero conoscere quell’Islam che cerca l’amicizia di cui parla anche Andrea Riccardi.
Nel libro “Paolo Dall’Oglio. L’uomo del dialogo” (Ed.Paoline, 2015), Guyonne de Montjou riporta la testimonianza di alcuni suoi incontri con Paolo al monastero di Mar Musa. In uno di questi, il gesuita romano ha spiegato – con la sua inconfondibile chiarezza – la passione nel cercare il confronto con l’altro:
“Io ovviamente annuncerò, fino al martirio, se necessario, la Buona Novella dell’amore di Gesù! Ma so che, di fronte a me, un musulmano annuncerà con la stessa intensità la Profezia coranica. L’unico mezzo per donare la propria vita per Gesù consiste nell’aiutare ognuno ad essere un pellegrino di verità, non limitarlo all’interno del suo contesto, valorizzare la sua esperienza di Dio… Il mondo ha bisogno di persone iniziate all’esperienza mistica. In modo collettivo e individuale, bisogna che ognuno senta nel proprio corpo e nel proprio cuore, grazie a maestri esperti, il tocco e il contatto di Dio”.
Anni di tesi, ipotesi e congetture sulla sua sorte. Mi sottraggo volentieri a queste disquisizioni, facendo mie le parole di Hind Aboud Kabawat, profonda amica di Padre Paolo, riportate da un articolo di Marta Serafini sul Corriere: “Se è morto è morto. Se è vivo allora tornerà indietro. Noi dobbiamo seguire i suoi principi. Amare gli altri, costruire ponti attraversando il confine per la pace e la riconciliazione. Erano queste le sue parole preferite”.
“Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici” – Giovanni 15:13
Il carisma visionario di un uomo straordinario
“Paolo è stato sottovalutato”, ha dichiarato ad Aleteia Riccardo Cristiano, giornalista e storico vaticanista di Radio Rai. “Con noi comunicava sulla base del concetto di solidarietà nei confronti di popolazioni che rivendicavano libertà e dignità. Era un visionario, e come tale ha saputo identificare degli scenari prossimi e avvertirci di ciò che sarebbe potuto accadere. Noi non l’abbiamo compreso, perché – a differenza sua – non eravamo abituati a vivere e comunicare con i siriani. A loro, ai siriani, parlava sulla base del concetto di consapevolezza sociale”.
La radice dell’impegno di Padre Paolo non è infatti da ricercarsi nella volontà di affermazione di un gruppo politico o di una fazione religiosa, ma nella constatazione della crisi irrimediabile del modello di unità sociale calata dall’alto. “Paolo, e con lui tanti siriani, aveva compreso la crisi profonda di quello stato, che oserei paragonare allo stato napoleonico”, ha aggiunto Riccardo Cristiano. L’unica unità presentabile era dunque, per il sacerdote romano, non quella nata come espressione della volontà imprevedibile di un governo autoritario; ma quella ricostruita dal basso, valorizzando e non annullando le diversità.
In un intervista al giornalista siriano di ANA Press Rami Jarrah – tenutasi nella città turca di Gaziantep poco prima del rapimento ma riapparsa recentemente sul web – Paolo aveva affermato, con un sapore tragicamente profetico, che “se ciascuno di noi chiude la mente … noi tutti perderemmo il Paese e ciascuno perderebbe l’altro”. Ribadendo la necessità di pensare “a cosa fare per mettere il paese sulla strada della comprensione, della convivenza, della fratellanza, della democrazia matura e del superamento del regime tirannico“.
“La consapevolezza di essere un soggetto plurimo e di avere bisogno dell’altro per arricchire se stessi. È questo il concetto visionario che ha fatto innamorare i siriani, a prescindere dalla propria appartenenza religiosa, della figura di Paolo”, ha sottolineato il vaticanista di Radio Rai, responsabile dell’associazione Giornalisti amici di Padre Dall’Oglio. Ma questo doppio binario comunicativo è stato incompreso da entrambi i versanti, perché spesso limitati da un registro interpretativo squisitamente partigiano.
“Il nemico dei terroristi è necessariamente chi parla di dialogo, che funge da minaccia esistenziale per il nichilismo, per l’ideologizzazione o per qualunque sia la fonte a cui vogliamo ricorrere per interpretare la motivazione degli assassini. Siamo portati a pensare che il dialogo sia sinonimo di buonismo, ma in realtà è l’unica arma capace di mettere in crisi questi gruppi. Ecco perché le espressioni, i simboli e gli interpreti del dialogo sono il bersaglio per antonomasia. La potenza di Paolo è data dalla sinergia dei due registri comunicativi – solidarietà e consapevolezza – che vanno di pari passo. Proprio come Bergoglio, anche lui sembra rivolgersi a bambini, con dolcezza e chiarezza, arrivando fino al cuore della questione”, ha concluso Riccardo Cristiano.
Nel libro “Collera e luce. Un prete nella rivoluzione siriana” (Emi, 2013) Padre Paolo ha descritto, con lucida lungimiranza, il destino dei cristiani di Siria nel caso in cui la comunità internazionale continuasse a ignorare la causa siriana:
Una cosa è il progetto di una Siria democratica, rivoluzionaria, pluralista, dove i cristiani avrebbero il loro posto. Altra cosa è il progetto politico islamista dove lo spazio dei cristiani sarebbe ristretto. E infine, altra cosa ancora è l’esplicita aggressione contro i cristiani da parte degli estremisti musulmani cosiddetti jihadisti e takfiriti.
E l’irresponsabilità mondiale prepara il terreno a questa terza ipotesi. (…) Il cristianesimo siriano diventerà residuale. Il che non significa che diverrà privo di senso, di importanza culturale e certamente di ruolo spirituale. Il disastro può essere più o meno grave, tutto dipenderà dalle scelte future sul piano nazionale o internazionale.
Tuttavia, a fronte di tale questione l’ottimismo deve restare di rigore; alla fine del conflitto, il tessuto sociale siriano si ricomporrà nella sua pluralità. Alcuni ritorneranno per ricostituire una certa normalità, il loro contesto vitale. Quanti avranno trovato una soluzione altrove, vi resteranno. Io conservo la speranza che le comunità cristiane residuali possano fiorire in una futura Siria islamica, capace di scegliere un coerente pluralismo inclusivo.
*CONTINUA LA LETTURA QUI. ARTICOLO PUBBLICATO ORIGINARIAMENTE SU ALETEIA
Profilo dell'autore
- Dal suo Abruzzo ha ereditato la giusta unione tra indole marinara e spirito montanaro. Su Frontiere, di cui è co-fondatore, scrive di diritti umani e religioni.
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