Shaheen è un giovane richiedente asilo arrivato in Svezia dall’Afghanistan. Sin da bambino è stato addestrato in Pakistan per diventare un soldato talebano, vivendo recluso in una madrasa. Ora rischia di essere espulso. In Afghanistan c’è una taglia su di lui, lo aspetta morte certa.
Mi chiamo Shaheen e sono stato addestrato in Pakistan per diventare un soldato talebano. Quando avevo 15 anni mi è stato detto che ero pronto per uccidere i nemici: soldati americani, europei e afgani. Ma non volevo, così sono scappato. Questa è la mia storia.
In quegli anni di reclusione ho provato a fuggire tre volte. Nelle prime due volte mio zio mi ha riportato indietro, ma la terza volta un altro zio, il fratello di mia madre, mi ha aiutato a nascondermi. Così sono fuggito dall’Afghanistan.
Da tre anni vivo in Svezia, e per tre volte la mia richiesta d’asilo è stata rifiutata. Rischio seriamente di essere espulso e rimandato in Afghanistan. Un avvocato volontario mi ha aiutato ad appellarmi, ma nessuno sa quando riceverò una risposta. Quindi passo le mie giornate aspettando. Da tre mesi.
Vivo a Goteborg, completamente da solo, senza la più pallida idea di cosa sia successo nel frattempo a mia madre e a mio fratello. Non ho modo di mettermi in contatto con loro e questo mi deprime terribilmente. Alcuni giorni inizio a piangere e non riesco a fermarmi, specie durante le festività islamiche. In Afghanistan non conosco più nessuno, quando sono stato costretto ad andare in Pakistan ero ancora un bambino. Eppure l’Agenzia svedese per le migrazioni vuole rimandarmi lì.
Non sanno quello che rischio: i talebani sono ovunque, anche nella polizia. Se tornassi lì lo verrebbero a sapere immediatamente. I poliziotti passano ai talebani i registri in cui sono annotati i nomi di chi ritorna. Mi aspettano: ho violato le loro regole, secondo loro merito di morire. Nessuno può proteggermi.
Quello che ho vissuto nella madrasa è terribile, ma la l’Agenzia per le migrazioni non mi crede. E io non ho le prove per dimostrare che non mi sono inventato niente.
Appena arrivato in Svezia ero terrorizzato: nella mia mente anche in Scandinavia c’erano spie dei talebani che avrebbero potuto farmi prendere. Per questo motivo non ho parlato per tanto tempo.
Ma ora capisco meglio quello che mi circonda. So che questo è un paese libero. È arrivato il momento di raccontare la mia storia.
Nella madrasa i talebani mi hanno insegnato a sparare. Ci esercitavamo con le pistole, i fucili e i kalashnikov. I capi ci dicevano che il nostro obiettivo era uccidere i soldati americani. Ma anche gli afghani collaborazionisti.
A capo della madrasa c’era il Mullah Shohaijeb. Era una madrasa strategica, a turno venivano le figure più importanti per i talebani. Ad esempio, ho incontrato il Mullah Mansour, che è diventato leader supremo di tutti i talebani dopo la morte del Mullah Omar. Un giorno ho visto anche il Mullah Fazlullah (l’ideatore dell’attacco contro il futuro premio Nobel Malala Yousafzai, ndr).
Ma non c’erano solo visitatori. Nella madrasa portavano anche i prigionieri. Non riesco a togliermi dalla mente la loro immagine, mentre venivano bendati, picchiati, stuprati e molto spesso uccisi. Del resto questo succedeva anche a molti di noi.
Tutto è cambiato quando ho compiuto 15 anni. A quell’età gli studenti della madrasa vengono mandati in guerra. Nessuno è mai tornato indietro. Ero terrorizzato, e non volevo per alcun motivo uccidere nessuno. Così sono scappato.
Un giorno, durante la preghiera comune, mi sono aggrappato a un camion che aveva appena scaricato del cibo nel campo. Avevo calcolato tutto: durante la preghiera c’erano meno controlli e non avrei dovuto fare altro che nascondermi dietro il grande cancello dell’entrata principale e lanciarmi al momento opportuno. Mi sono aggrappato nella parte inferiore della macchina, tra le ruote. Ho viaggiato con la schiena che sembrava cedere da un momento all’altro. Ancora oggi provo dolore negli stessi punti.
Non ho idea di quanto sia durato il viaggio, ma appena abbiamo raggiunto Torkham, al confine tra Pakistan e Afghanistan, sono saltato fuori dal camion e mi sono nascosto in un container diretto a casa, Jalalabad.
Durante le prime due fughe mio zio, che nel frattempo aveva sposato mia madre, mi aveva picchiato e riportato in Pakistan. Ma la terza volta mia madre e suo fratello sono riusciti a nascondermi e così ho potuto lasciare per sempre l’Afghanistan.
Il fratello di mia madre mi ha affidato a un uomo che non avevo mai visto prima. Né so come lo conoscesse. Non sapevo dove mi avrebbe portato. Dopo un mese di peripezie sono finito in Svezia.
Il viaggio è iniziato con un gran numero di afgani, principalmente ragazzini e famiglie. Ci nascondevamo nei boschi e tra i monti durante il giorno, e la notte viaggiavamo nascosti nei camion. Per giorni non abbiamo mangiato, bevuto e respirato aria fresca.
Per tutto il viaggio non ho visto altra gente al di là di chi ci portava da un posto all’altro. Cambiavamo spesso la composizione dei gruppi, direi ogni due o tre giorni. Ben presto tutti sono diventati totali estranei, non li riconoscevo, non capivo di cosa parlassero, dove fossero diretti e da dove provenissero.
Quando ho raccontato tutto questo al mio avvocato, mi ha chiesto perché non abbia parlato prima. È dura. L’ansia cancella dalla mia mente i concetti, faccio fatica a mettere insieme i discorsi. Spesso quello che ho visto scompare dai miei pensieri, per poi riapparire quando meno me l’aspetto. A volte mi sento così triste che penso di togliermi la vita.
All’agenzia per le migrazioni ho detto che se decideranno di rimandarmi in Afghanistan, mi ucciderò: meglio che lo faccia io piuttosto dei talebani.
Vorrei solo rimanere in Svezia, fare una vita normale, magari diventare un dentista. Così poi potrei dire: “Sì, Shaheen, sei riuscito a superare tutto”. Ma se questo non dovesse accadere… non cosa potrei fare.
Profilo dell'autore
- Responsabile e co-fondatore di Frontiere News. Scrive di minoranze e diritti umani su Middle East Eye, Espresso, Repubblica, Internazionale e altre testate nazionali e internazionali
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