Fahim e sua moglie Fatima, entrambi di 57 anni, nel 2013 hanno lasciato la Siria per scappare dalle bombe del regime di Bashar al-Assad. In Europa sono stati accolti dal razzismo delle istituzioni
Sorride Fatima, mentre prepara il terzo caffè della serata. Mi trovo nella loro casa ad Ustina, un villaggio a 20 km da Plovdiv, l’antica Filippopoli romana passata alla storia come fulcro del rinascimento bulgaro. La cucina è invasa da un’intensa fragranza di cardamomo. “Gli aromi della nostra terra sono una delle poche cose che, per qualche secondo, le fanno dimenticare tutta la sofferenza che ci ha portati fin qui”, sussurra il marito Fahim. “E per qualche secondo è come se fosse a casa. Pensa ai pomeriggi con le amiche. E sembra essere felice”.
Nato ad Aleppo nel 1960, prima della guerra Fahim Jaber era un mercante. Il duro lavoro era ripagato dalla soddisfazione di garantire ai figli l’istruzione che lui non aveva ricevuto, e di aver messo da parte qualche risparmio per la vecchiaia. Tutto sommato un’esistenza serena, per quanto possa esserla sotto una dittatura. Poi, nel 2012, delle bombe hanno distrutto la casa a tre piani in cui viveva con la famiglia. “Qui in Europa non avete idea di cosa siano i barili-bomba del regime”, continua Fahim. “Botti di metallo riempite di esplosivo, chiodi arrugginiti e altra ferraglia appuntita. Lanciati dagli elicotteri. Forse ne avete sentito parlare, ma non ne avete mai visto uno. Noi invece abbiamo ancora davanti agli occhi le macerie imbrattate di sangue”.
Da quel momento l’inferno. Il figlio più grande, Muhammad, è partito alla volta dell’Europa contro la volontà dei genitori. “Non ce la faceva a rimanere là. L’aviazione governativa aveva raso al suolo interi quartieri, eravamo circondati da cadaveri e detriti”.
Il 31 ottobre 2013 Muhammad Jaber ha varcato illegalmente il confine turco-bulgaro, con il sogno di rifarsi una vita in Germania. “È stato ad Amburgo, ma il pesante clima xenofobo lo ha spinto a tornare in Bulgaria. Pensava che lì le cose sarebbero andate meglio. E ci ha invitati a raggiungerlo. Noi eravamo disperati, e abbiamo fatto nostro il suo sogno”.
Gaziantep, poi Antalia e quindi Istanbul. Fahim, sua moglie Fatima e il 24enne Ahmad, il più piccolo dei figli, hanno varcato la frontiera bulgara nel 2016. Ma gli altri figli hanno preferito restare in Turchia, con le loro famiglie. “Avremmo dovuto fare la stessa cosa anche noi. Qui l’esistenza che abbiamo non è vita”.
“VI RICACCEREMO VIA DA QUI COME ABBIAMO FATTO CON GLI OTTOMANI”
La loro destinazione finale era Elin Pelin, un villaggio di 7mila anime a 30 km dalla capitale Sofia. Ma oltre al figlio Muhammad li aspettava anche lo spettro dell’islamofobia e del razzismo. “Abbiamo ottenuto lo status di rifugiati. Ma nonostante questo, il sindaco di Elin Pelin si è rifiutato di concederci la residenza nel suo villaggio. Si è giustificato dicendo che è suo dovere rispettare la volontà della popolazione locale. Ma sappiamo che ha agito contro la legge e, soprattutto, contro il senso di umanità”.
Sì, perché due persone di quasi sessant’anni hanno involontariamente scardinato l’equilibrio della cittadina: i residenti hanno organizzato cortei contro la loro presenza, minacciandoli di offrire loro “lo stesso trattamento riservato agli Ottomani”.
“Siamo scappati dalle bombe pensando di trovare più umanità, qui in Europa. Ma non è stato così”, dice la moglie Fatima Batayi, guardando per terra. “Siamo liberi, sì. Non ci sono soldati che uccidono e stuprano per le strade, è vero. Ma sentiamo di non essere graditi qui”.
“La cosa più dolorosa”, continua il marito, “è stato vedere in televisione una folla inferocita urlare contro di noi. Ci hanno minacciati in ogni modo, dicendo che ci avrebbero cristianizzati con la forza e che altrimenti ci avrebbero rimandati da dove eravamo venuti. Cioè, ci avrebbero rispediti tra le braccia della morte”.
Fahim e sua moglie, benché aventi lo status di rifugiati, sono stati quindi costretti a rifare le valigie e guardare negli occhi lo sgretolamento della vita che avevano sognato. Ma il sindaco Ivaylo Simeonov, esponente del partito di estrema destra VMRO, ci tiene a far sapere che chi lo accosta a parole quali “fascismo” o “razzismo” sbaglia in pieno. “Ho visto nei loro occhi la sofferenza della guerra”, si giustifica in una video dichiarazione, “ma il problema è dato da chi seguirà inevitabilmente la strada che loro intendono tracciare. Dietro questa coppia, che ne sia consapevole o meno, si nasconde una massa di persone pronte a prendere il Paese con ogni mezzo. Noi non lo permetteremo. Stiamo solo difendendo la terra che ci hanno trasmesso i nostri antenati”.
https://www.youtube.com/watch?v=DJmdb5Z1imk
“MAI VISTA TANTA DIVISIONE TRA CRISTIANI E MUSULMANI”
L’astio dei residenti locali ha gettato Fahim e Fatima nello sconforto. Per due mesi non sono usciti di casa, per timore di ricevere attacchi. “Siamo musulmani devoti, ma in Siria avevamo ottimi rapporti con i cristiani”, racconta Fahim mentre mi offre del manaqish accompagnato da un tipico formaggio siriano. “Vivevamo di fronte ad una chiesa. L’affiliazione religiosa non era mai stata per noi motivo di preoccupazione. Non avevamo mai visto con i nostri occhi tanta divisione tra cristiani e musulmani. Qui ci sembra che molti si dichiarino cristiani, ma sentiamo una differenza radicale con i cristiani di Aleppo. E questo ci lascia una profonda amarezza”.
L’immigrazione, capro espiatorio di tutti i problemi
La Bulgaria, in cui lo stipendio medio si aggira tra i 400 e i 500 euro, è il più povero dei paesi membri dell’Unione Europea. L’emigrazione è altissima: negli ultimi 23 anni sono partiti in cerca di fortuna quasi 2 milioni di bulgari (la popolazione attuale è di circa 7 milioni). Ma la clientelare classe dirigente è stata abile nell’incanalare la rabbia dei cittadini e dirottarla verso gli ultimi. Secondo un sondaggio pubblicato a febbraio, il 77% dei bulgari vede nell’immigrazione una minaccia alla sicurezza nazionale. Per mesi il confine con la Turchia è stato pattugliato dai famigerati “cacciatori di migranti”, ronde paramilitari – composte da neofascisti ed ex poliziotti – responsabili di fare il lavoro sporco per le forze dell’ordine. Inoltre le autorità non fanno nulla per facilitare l’integrazione sociale dei rifugiati che sono riusciti a scampare alle mani dei “cacciatori”.
“Noi vogliamo essere parte del popolo bulgaro, che ovviamente non può essere rappresentato da questi elementi”, continua Fahim. “Abbiamo chiesto alle autorità di inserirci in programmi attraverso cui imparare la lingua, le tradizioni, la cultura. Ma ci è sempre stato negato ogni supporto. Ho quasi sessant’anni, per me non è facile andare oltre il vsichko dobre, blagodaria [“tutto bene, grazie” in lingua bulgara, ndr]. Ma a loro non interessa. Vogliono solo ‘stare tranquilli’, dicono. Hanno paura che noi possiamo fare del male ai loro figli. Solo perché siamo musulmani”.
Cacciati da Elin Pelin, i Jaber hanno trovato maggiore accoglienza nel villaggio di Ustina, nella regione di Plovdiv. Qui il figlio Ahmad – che parla turco, arabo e bulgaro – è riuscito a trovare un lavoretto, con il quale aiuta il fratello al mantenimento della famiglia. Ma il sogno di Fahim e Fatima è tornare ad Aleppo: “Non avrei mai pensato di trascorrere gli ultimi anni della mia vita in un altro continente, senza poter fare alcuna attività. Promettimi che ci verrai a trovare quando, se Dio vuole, un giorno ricostruiremo la nostra casa ad Aleppo. Quando mi alzo la mattina bacio mia moglie e penso alla Siria. Quando vado a dormire penso alla Siria e bacio mia moglie. Una Siria libera dalla tirannia del regime e dai suoi mercenari russi. Una Siria accogliente, che sappia far conoscere la propria bellezza al mondo”.
Profilo dell'autore
- Dal suo Abruzzo ha ereditato la giusta unione tra indole marinara e spirito montanaro. Su Frontiere, di cui è co-fondatore, scrive di diritti umani e religioni.
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