La guerra contro lo Stato Islamico non è finita

Raqqa, capitale del sedicente Califfato, è caduta. Ma questo non vuol dire la guerra contro lo Stato Islamico sia terminata. Valerio Evangelista, co-fondatore di Frontiere News, ne ha parlato in un’intervista all’Agenzia Stampa di stato bulgara БТА (Българска телеграфна агенция). Intervista a cura di Lyubomir Martinov


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Con la caduta di Raqqa e Mosul, lo Stato Islamico ha perso le sue principali roccaforti in Siria e Iraq. Queste sconfitte faranno diminuire la sua capacità di organizzare attacchi terroristici in Medio Oriente e in Europa?

Raqqa è caduta, ma consideriamo tre aspetti. Innanzitutto, il sedicente Stato Islamico ha dimostrato di essere diabolicamente in grado di reclutare molti giovani via internet. Il sistema propagandistico (sia nel deep web che nel surface web) è ancora attivo e non ha bisogno di uno stato fisico per organizzare attacchi.

Inoltre, avendo perso la propria “terra promessa”, i combattenti stranieri torneranno a casa. E potrebbe essere un problema enorme. Prima o poi, questa diaspora armata dovrà tornare in patria. E, non avendo nulla da perdere, saranno pronti a tutto.

Infine, Raqqa è stata scelta come capitale del califfato anche per la sua posizione strategica. Non è per caso che la città sia circondata da pozzi petroliferi. I terroristi sono ora alla ricerca di un altro luogo dove stabilire i propri quartier generali e sicuramente cercheranno di farlo in una zona ricca di fonti naturali. Potrebbero guardare al Maghreb e nello specifico all’Algeria. L’Algeria ha tra le più importanti fonti di petrolio della zona. Se così fosse, non dovrebbe essere difficile per loro reclutare soldati, considerando la situazione estremamente difficile in cui vivono molti algerini.

I recenti sviluppi sul campo cambieranno l’equilibrio tra i poteri tenendo conto anche delle forze straniere presenti in Siria? Le posizioni di Bashar Assad sono sicure per il momento?

Dobbiamo considerare che non è stato Bashar al-Assad a recuperare Raqqa, bensì i suoi avversari. La città è stata presa dall’alleanza multiculturale delle Forze Democratiche Siriane, composta da milizie curde e ribelli arabi, tra i quali anche alcune brigate cristiane.

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Ma mentre infuriava la battaglia per Raqqa, un paese è diventato tra i più influenti della regione. La Russia. In questi ultimi mesi la Russia ha svolto delle intelligenti mosse diplomatiche. Ha aumentato le sue basi in Siria e i suoi soldati sono ora dotati di armi più sofisticate. La sua alleanza con l’Iraq e l’Iran è diventata più forte, a causa dell’impegno di Mosca nella “guerra santa” dalla parte di Assad. Ha rafforzato i suoi rapporti con Israele, che sempre più vede nel Cremlino un partner affidabile che possa garantire la sicurezza del confine con la Siria. Possiamo senza dubbio confermare che in questa situazione la Russia stia diventando sempre più influente. Inoltre, ciò che i curdi hanno conquistato così duramente in Iraq è stato platealmente tolto via dal governo iracheno.

I curdi siriani stanno ora festeggiando sulle ceneri di Daesh ma fonti locali hanno denunciato che in realtà agiscono più da occupanti, che da liberatori. La nuova mappa di questa zona del Medio Oriente è ancora da delineare. Solo il tempo ci dirà a quale prezzo.

Perché il ritmo dell’offensiva contro lo Stato islamico, sia in Siria che in Iraq, è stato così lento?

Tutte le fazioni coinvolte negli eventi siriani hanno dichiarato di essere in guerra con il cosiddetto Stato Islamico. La verità è che tutti avevano avversari più importanti a cui badare. I curdi hanno dovuto combattere le brigate ribelli finanziate dalla Turchia, nonché la Turchia stessa. I rivoluzionari siriani hanno dovuto resistere sia al regime siriano che alle brigate fondamentaliste. Gli aerei russi erano più concentrati a bombardare l’Esercito Siriano Libero che il Daesh. In questa complessa situazione, Daesh ne ha approfittato.

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Non dimentichiamo anche il modo in cui il sedicente Stato Islamico è cresciuto negli ultimi anni. In Iraq si è sviluppato dall’alleanza tra ex-ufficiali di Saddam Hussein e al-Qaeda. Nel 2011 e poi nel 2013, il regime siriano ha concesso un’amnistia globale per i fondamentalisti islamici violenti. Il problema è che una volta che la bestia è stata scatenata, difficilmente si può addomesticare. Molti analisti politici ritengono che sia stato un modo per contrastare la rivoluzione dall’interno.

C’è anche un’altra ragione. Un’ideologia totalitaria di morte, quale è quella dell’Isis, non può essere fermata soltanto dalle bombe. La chiamata ad un’immigrazione globale nella terra dell’ “Utopia islamica” ha attirato migliaia di combattenti stranieri provenienti da tutto il mondo. L’ideologia li ha spinti a lasciare la loro patria per combattere. Questo è ciò che ha fatto la differenza.

Qual è il futuro del Kurdistan iracheno alla luce del referendum sull’indipendenza e soprattutto a seguito della ritorsione di Baghdad nelle zone sotto il controllo curdo?

Kirkuk è stata riconquistata dal governo iracheno attraverso un’operazione congiunta con delle milizie addestrate dall’Iran. Come affermato dal comando generale dei Peshmerga curdi, sono state usate armi americane. Donald Trump ha arbitrariamente elogiato se stesso per l’esito positivo della battaglia per Raqqa. Eppure nel Kurdistan iracheno, dove Kirkuk sarebbe stata presa usando armi americane e dove si trovano gli storici alleati degli americani, i Peshmerga, Trump ha dichiarato che gli Stati Uniti non prenderanno le parti di nessuno.

Una delle ragioni per cui Kirkuk è caduta è a causa della sua profonda divisione. Kirkuk è una città multietnica composta da curdi, turkmeni e arabi. I curdi stessi erano molto divisi, politicamente. Alcuni analisti ritengono che ci possa essere un rischio di una nuova guerra civile altri obiettano che Daesh, o ciò che rimane di esso, potrebbe approfittare della situazione per risorgere dalle ceneri.

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Ma in mezzo a questo caos, due cose sono sicure: qui sono presenti le principali fonti di petrolio della zona, basti pensare che Israele importa il 77% del suo petrolio dal Kurdistan iracheno. In secondo luogo, l’intervento per procura da parte dell’Iran è segno che miri ad aumentare ancora di più il suo controllo sulla politica irachena.

Pensi che l’Iran cercherà di minare ulteriormente gli interessi degli Stati Uniti nella regione a causa del rifiuto di Donald Trump di certificare l’accordo nucleare?

L’accordo nucleare è un accordo multilaterale e Donald Trump non può revocarlo unilateralmente. Se lo facesse, potrebbe (benché sia improbabile) essere sottoposto ad impeachement. Se Trump dovesse essere condannato dal Senato e rimosso dalla carica diventerebbe Presidente l’attuale vice-presidente Mike Pence. E quest’ipotesi rappresenterebbe una minaccia ben più grave agli interessi iraniani.

La Guida Suprema Ayatollah Ali Khamenei ha detto chiaramente che l’Iran proverà a non rispondere a queste provocazioni. Il punto è che l’Iran perseguirà comunque i propri interessi nell’area, a prescindere dalle dichiarazioni lunatiche di Trump. Washington tende a descrivere gli oppositori degli Stati Uniti come irrazionali, ma spesso non è affatto così.


Profilo dell'autore

Lyubomir Martinov
Giornalista bulgaro per la БTA, l'agenzia di stampa di Stato della Bulgaria (http://www.bta.bg/en/).
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