L’attraversamento della frontiera tra Messico e Stati Uniti raccontato dalla scrittrice guatemalteca Ilka Oliva Corado, indocumentata tra migliaia di indocumentati che ogni giorno tentano l’impresa. Su gentile concessione degli editori vi proponiamo il terzo capitolo del libro “Storia di una indocumentata – Attraversamento del deserto di Sonora- Arizona“, pubblicato a maggio da Edizioni Arcoiris (traduzione di Maria Rossi).
Salimmo su un taxi che per sei ore ci portò lungo le autostrade del deserto di Sonora. I taxi che transitano da quelle parti sono prevalentemente fuoristrada Suburban e Hummer. Per quel terreno, servono auto a doppia trazione.
Per sette volte l’autista dovette fermarsi in posti di blocco della polizia e per sette volte tenni la parte della perfetta messicana. Mi chiesero tutto quello che avevo studiato sul Paese. Vidi fermare decine di persone che si erano confuse a una sola domanda rivelando di essere centroamericani o sudamericani. Nei posti di blocco si ammassano decine di migranti che provano ad arrivare nelle cittadine di frontiera.
Ci sono poliziotti che ricevono denaro in cambio di favori e chiudono un occhio sugli accenti e le nazionalità, ce ne sono altri che prendono i migranti in ostaggio perché sanno che gli andrà meglio chiedendo un riscatto, altri che li rinchiudono per giorni con l’unico scopo di abusare di loro sessualmente e ci sono quelli più perversi che li vendono al crimine organizzato dopo averne abusato. Molti di questi indocumentati cadono nelle mani dei trafficanti di organi, o comunque nella tratta di persone per sfruttamento sessuale e lavorativo. Infine quelli che li reclutano per trasformarli in mercenari del crimine organizzato.
Nell’ultimo posto di blocco non fui in grado di rispondere a una domanda però una messicana che viaggiava con i suoi nipotini di dieci anni venne in mio soccorso e disse al poliziotto che ero una sua cugina e che mi ero trasferita di recente a Morelos da Veracruz. La coyote si era allontanata dal gruppo e aspettava dentro il fuoristrada. Nel risalire in macchina chiesi alla ragazza che non aveva più di trent’anni perché mi avesse aiutato. Mi disse: “oggi a te, domani a me”.
Le uniche persone che usano i taxi che vanno verso i centri abitati di frontiera sono i coyotes e i migranti indocumentati, perché sono zone morte dove ci sono pochissimi abitanti, la maggior parte dei quali o è emigrata negli Stati Uniti o lo ha fatto in altri Stati messicani.
Quando mancava ormai poco all’arrivo a Agua Prieta, l’autista si fermò in una taquería e ci diede quindici minuti per mangiare. Lì assistetti allo stupro di una adolescente indocumentata che viaggiava in un altro gruppo e nessuno fece niente per difenderla.
Arrivammo al ristorante, aveva l’aspetto di una galera, vari taxi erano stazionati sul bordo della strada e dentro vidi un gruppo di una sessantina di persone. Cercai il bagno perché avevo bisogno di orinare, una delle cameriere di sala mi indicò la parte laterale del posto, il bagno stava fuori. Aprii la porta e con stupore mi ritrovai con un gruppo di undici tipi che mantenevano bloccata a terra una ragazza nuda di cui stavano abusando sessualmente, mentre altri la mantenevano per non farla muovere e altri ancora aspettavano il loro turno.
Chiusi la porta e dissi a quelli dei tavoli vicini che nei pressi del bagno stavano violentando una donna, mi dissero che lo sapevano già perché erano andati a prelevarla nel ristorante e che però non potevano farci niente perché quelli erano armati. La risposta mi indignò soprattutto perché mi parlarono con una tale parsimonia, come se stessero discutendo di cibo. Un uomo di circa cinquanta anni mi disse che era lo zio della ragazza che ne aveva diciannove e che non aveva potuto fare nulla quando quei tizi erano entrati e l’avevano portata verso il bagno: “Sono tutti armati signorina e la cosa migliore è non immischiarsi altrimenti ci ammazzano tutti. Lei si rimetterà”.
Iniziai a sbraitare contro tutti e l’autista del taxi si vide costretto a prendermi di peso, tapparmi la bocca con una mano e farmi salire sul fuoristrada. Due uomini che viaggiavano sul mio stesso taxi si offrirono volontari per controllare che non scendessi. L’autista mi disse che era l’unico modo per essere certo che quei tizi non violentassero anche me o mi uccidessero proprio lì.
Poco dopo arrivò la coyote che stava pagando i tacos.
Dal finestrino del taxi vidi come uno dopo l’altro passavano sulla ragazza. Si ritirarono tutti soddisfatti come chi entra in un negozio, compra un dolce, lo paga e se ne va.
Lo zio e altri uomini andarono a sollevarla, la fecero salire sul taxi e partirono verso la frontiera.
L’immagine della ragazzina mentre veniva violentata da quegli uomini non mi ha fatto dormire per anni, mi svegliavo all’alba pronunciando improperi e sudando freddo con le pulsazioni a mille all’ora. Quella scena ha fatto parte degli incubi che mi hanno per- seguitato per notti intere.
Nel fuoristrada afferrai la manica della giacca che indossavo e gridai con tutte le mie forze, la morsi fino a stancarmi, tutti rimasero in silenzio perdendosi nelle loro cavillosità e nel passaggio del deserto.
L’autista disse che era normale che succedesse e che, anche denunciandolo, la polizia non avrebbe fatto nulla a riguardo. Mi disse che dovevo sentirmi una privilegiata visto che non avevano violentato anche me per le grida tremende che avevo dato nel ristorante.
All’incrocio tra Agua Prieta e Napo scese la ragazza con i suoi due nipoti. Ci scambiammo un abbraccio e portò via con sé la mia riconoscenza per aver interceduto con la polizia statale.
Alle cinque in punto del pomeriggio arrivammo all’hotel El Girasol dove la coyote mi avrebbe consegnato a un’altra organizzazione che si sarebbe fatta carico della mia traversata nel deserto per poi consegnarmi a un’altra organizzazione ancora in Arizona.
Anche quello che vidi in quell’hotel mi perseguitò per anni.
Stanze stracolme di persone stipate che deliravano nella trance causata dalle droghe che avevano ingerito, alcune in pasticche, altre iniettate, orge, donne senza documenti che pagavano con il sesso la traversata, altri che pregavano la Virgen de Guadalupe che aveva altari ovunque.
Era stabilito che sarei partita quella stessa notte con il gruppo delle donne, però eravamo arrivati con un’ora di ritardo e se ne erano già andate, perciò sarei rimasta fino al giorno successivo con il gruppo degli uomini. Le porte delle camere erano spalancate, proprio a nessuno importava di essere visto sollazzarsi e a quelli sotto l’effetto delle droghe ancora meno. Enumerare le nazionalità sarebbe impossibile perché c’erano persone di varie parti del mondo. L’hotel si proponeva come il migliore del posto, ed effettivamente lo era; in altri porcili la sorte non era certa.
Quella notte dormii nella stessa stanza con la coyote che conosceva il padre del gestore dell’hotel e per questo fummo privilegiate potendo dormire sole senza che ci disturbassero. Ci diedero una stanza al secondo piano. Spostammo il letto vicino alla porta e ci sdraiammo. Il coyote ci aveva detto di aprire solo a lui. Passammo l’intera notte in bianco perché ogni cinque minuti bussavano alla porta invitandoci a partecipare a ogni tipo di orgia in cui offrivano liquore e droghe.
La mattina andammo a fare colazione e a conoscere la cittadina morta di Agua Prieta, sembrava appena uscita da un western: case abbandonate con fori di proiettili alle porte, hotel che cadevano a pezzi, rovine di ristoranti, distributori di benzina e minimarket. Strade vuote con marciapiedi sporchi di sangue secco.
Una desolazione totale nell’afa dell’inferno di frontiera.
Mangiammo dei tacos a due metri dalla frontiera che è delimitata da una recinzione metallica e più avanti da un muro di metallo, il famoso “confine” attraverso il quale passano quelli che pagano più di venti mila dollari.
Nell’unico minimarket disponibile comprai tre litri di bevanda energizzante, due mele, due gallette dolci, un’arancia. Avevo portato con me dal Guatemala due fasce e una pomata per lesioni muscolari. Alle cinque del pomeriggio indossai i miei pantaloni neri, il passamontagna e i guanti neri, mi misi lo zaino in spalla e salutai la coyote, che mi disse sarebbe rimasta lì a dormire per aspettare notizie del mio passaggio. Quando mancavano cinque minuti alla partenza, arrivò il gruppo di donne che era partito la notte precedente con cui me ne sarei dovuta andare. Le avevano prese alla frontiera ormai già in territorio statunitense e le avevano deportate. La pattuglia di frontiera le aveva lasciate al “confine”, a pochi metri da dove avevo fatto colazione.
Quando mi videro e fu loro raccontato che io ero la donna che mancava, quella che non era partita con loro perché arrivata in ritardo, si lanciarono su di me, mi abbracciarono tutte in un gesto estremamente strano; piangevano e dicevano che sarebbero partite con me, perché ero fortunata.
La parola fortuna mi ha accompagnato per tutta la vita. Quando nacqui, mi accolsero le mani di Mamita – la mia bisnonna materna –, assieme a quelle di mia nonna e a quelle della mia levatrice. La storia familiare racconta che nacqui al contrario, come nascono gli uomini, e che il mio corpo era ricoperto da una patina bianca come quella che hanno le bestie quando vengono al mondo. A Jutiapa si dice che quando le vacche e le giumente partoriscono, se il bebè è avvolto da una patina bianca, porta fortuna. Io nacqui così e per questo quando Mamita vide quella neonata nera bagnata da patina bianca disse: to’, questa Chilipuca è nata fortunata! Ed è qualcosa in cui ho creduto per amore verso la mia bisnonna che ebbe coraggio e mi battezzò come Chilipuca. Chilipuca è il fagiolo nero grande che in altre parti del Guatemala chiamano piloy. Sono stata la figlia che pesava di più alla nascita e l’unica dei quattro nata con una levatrice, privilegio che mi riempie di orgoglio.
Le donne non superavano i trent’anni, erano stanche perché da una settimana provavano ad attraversare la frontiera e ogni volta la pattuglia di frontiera le prendeva e le riportava al “confine”; volevano dormire e riprovarci in un altro momento, ma quando mi videro cambiarono idea. Non c’era modo di svincolarmi, mi stringevano, ero completamente cinta.
Erano sicure che con me avrebbero attraversato la frontiera. Il coyote diede loro cinque minuti per andare a comprare bottiglie di acqua distillata, salutai di nuovo la coyote e prendemmo tre taxi modello berlina. Era stato tutto studiato e provato: i taxi avrebbero parcheggiato dinanzi alla porta dell’hotel e noi saremmo saliti di corsa e ci saremmo stesi sui sedili. Dall’esterno il taxi sarebbe sembrato vuoto, solo con l’autista, per non destare sospetti nella polizia.
Con lo zaino in spalla e i miei vestiti neri corsi e saltai nel taxi. Fu così che il gruppo di diciassette indocumentati – otto donne e nove uomini – attraversò la cittadina di Agua Prieta fino ad arrivare nel deserto, dove si addentrò la vettura e senza fermarsi saltammo di nuovo fuori nei pressi di alcuni arbusti dove il coyote di competenza ci avrebbe dato istruzioni. Stava per cominciare la mia titanica traversata dei deserti di Sonora e Arizona.
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Profilo dell'autore
- Scrittrice e poetessa guatemalteca