Dieci anni. Un tempo lunghissimo, quasi infinito. La Storia è andata avanti veloce, e in Medio Oriente ancora di più. Conflitto dopo conflitto. Eppure ogni giorno il sole ha continuato a sorgere. Per noi, così come per i sopravvissuti: un’alba di guarigione dopo l’altra, oltre le finestre dell’ospedale di chirurgia ricostruttiva fondato nel 2006 ad Amman da Médecins Sans Frontieres (Medici senza frontiere, MSF), mentre la Giordania diventava, in proporzione, il secondo paese al mondo ad accogliere più rifugiati.
Undici foto in bianco e nero e altrettante a colori, esposte nella Galleria di Ras al-Ayn dal 7 al 9 novembre, hanno raccontato – e ancora raccontano – questa silenziosa storia di quotidiana, graduale rinascita.
Dawn of Recovery è il nome del progetto in cui sono racchiusi gli scatti di Alessio Mamo e le interviste di Marta Bellingreri, che hanno lavorato alla mostra nel 2016 su commissione di MSF, in occasione, per l’appunto, del decimo anniversario dalla fondazione del programma
Per il primo mese (aprile 2016) Mamo ha visitato l’ospedale e i suoi pazienti senza mai portare con sé la macchina fotografica. Ha cominciato a scattare solo dopo, lavorando da maggio ad agosto. È stato un processo di conoscenza lungo; uno scambio di fiducia e di storie intenso anche per i due giornalisti, che sono tornati sul posto a più riprese per realizzare il loro lavoro, a luglio del 2017. Bellingreri racconta di quanto sia stato difficile per lei, all’inizio, relazionarsi soprattutto con la piccola Aisha, pur parlando arabo. Aveva solo sei mesi quando una candela dimenticata accesa le ha bruciato, nel sonno, il volto e il braccio sinistro. Nel suo Yemen aveva già subito quattro operazioni. Ad Amman è in attesa della quinta, con la quale dovrebbero curarle le cicatrici che ha sul volto e darle una protesi per il braccio; quello stesso moncherino che ha porto a Bellingreri per mesi, per giocare, e che alla fine lei è finalmente riuscita a stringere con la naturalezza con cui si tengono per mano i bambini.
Aisha non è l’unica paziente così giovane. Assieme a lei ci sono tanti altri “piccoli” feriti di guerra: c’è Shamsa, rimasta vittima della bomba che ha colpito la sua casa ad Aleppo; c’è Ibrahim, che dopo aver bevuto dell’acido, non riesce più a parlare; e c’è Manal, colpita dall’esplosione di un missile a Kirkuk, nel 2015. Tutti loro giocano, ballano e suonano con il sorriso fra le cicatrici. C’è Yousef, un diciassettenne bruciato vivo a Baghdad da una gang di incappucciati che gli ha rubato la moto. Adesso ne ha un’altra. E non ha paura di guidarla.
Ci sono anche adulti e anziani, che vanno avanti con le loro vite e i loro affetti: c’è Mohammed, il pastore ventitreenne che ha perso denti e mascella per una granata ad Homs, ma che spera comunque di tornare in Siria; c’è Wael, che nel 2011, mentre protestava contro il suo presidente in Yemen, è stato reso irriconoscibile dalla polizia con ustioni di terzo grado su tutto il corpo; e c’è Qatada che è saltato su una mina ad Aden e ha perso entrambe le gambe, ma non la voglia di far figli con sua moglie.
I ritratti sono tutti composti da un prima e un dopo: il prima è in bianco e nero, scattato all’interno dell’ospedale per mostrare il dettaglio delle ferite; il dopo è a colori, intensi e luminosi; un fermo immagine del mondo fuori e del futuro. I pazienti, sottoposti a mastoplastiche, interventi chirurgici delicati o ortopedici, provengono da Iraq, Palestina, Yemen e Siria. Per questi ultimi – dice la Bellingreri – il recovery sarà ancora più difficile; incompleto, perché non hanno una casa dove tornare e la fiamma della speranza fa più fatica a restare accesa.
Paradigmatica è la storia di Amal, la sarta irachena il cui nome in arabo significa proprio “speranza”. Era al mercato con sua nonna, quando è esplosa un’autobomba. Le andava a fuoco tutto e la nonna le ha gridato: “Spegniti il fuoco, spegniti il fuoco!” Lei non ci ha pensato neanche un attimo e l’ha fatto a mani nude, ustionandosi i palmi con cui lavorava e che, all’ospedale, è riuscita dopo tantissimo tempo a curare. La prima cosa che ha fatto, una volta guarita, è stata cucire un vestito per la Bellingreri: un regalo preziosissimo, che stava lì ad attenderla l’ultimo giorno delle sue visite.
L’ospedale di MSF nato per accogliere i feriti di guerra iracheni è diventato ormai un punto di riferimento per la regione, un safe-space che offre una tregua dalla crisi, dove si incrociano queste e tante altre storie. Dieci anni, 4.5000 pazienti e più di 11.000 operazioni. Dawn of Recovery è quella luce che, fra tutti questi numeri, ricomincia pian piano a brillare, facendosi sempre più intensa man mano che il giorno avanza.
Profilo dell'autore
- Giornalista pubblicista dal 2012 e dallo stesso anno vagabonda fra Europa, Medio Oriente e Nord Africa. Traduttrice, anche. Il cuore come il porto della sua Napoli, scrive per lo più di interculturalità e mondo arabo-islamico.
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