Niger, frontiera di sabbia e di sangue

Hanno chiuso la porta del deserto. Hanno trasformato le antiche vie carovaniere in piste di morte. “Li caricano sopra i camion e poi li fanno scendere in mezzo al deserto con le minacce o con qualche scusa. Gli raccontano che verranno a prenderli, ma non è vero. Li abbandonano in mezzo al deserto. Uomini, ragazze, donne anche con bambini molto piccoli… senza acqua, senza cibo. La sabbia del Ténéré è un giardino di cadaveri in decomposizione”. Abdel (il nome è stato cambiato per motivi di sicurezza, ndr) era un passeur.

Era un passeur perché tutti i tuareg lo sono e lo sono sempre stati. Accompagnava i lavoratori dei Paesi che si affacciano sul Golfo di Guinea sulle piste del deserto che solo un tuareg sa vedere, sino ai campi di lavoro di Libia o di Algeria dove si estrae il petrolio o si raccolgono i datteri. I migranti rimanevano in questi Paesi per due, tre o anche quattro anni. Qualcuno si faceva solo la “stagione” e poi ritornava a casa a studiare, proprio come da noi nei meleti del Trentino o dell’Alto Adige. “Libia e Algeria erano i granai del Niger e dei Paesi confinanti – spiega Abdel -. Poi è arrivata l’Europa ed è ha portato qui la sua frontiera di sangue”.


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La città di Agadez è un grande caravanserraglio del colore della sabbia del deserto. Le sue strade ruotano attorno al grande minareto di arenaria ed al palazzo del sultano, incaricato del suo mantenimento. Ogni casa è un piccolo forte ma con la porta sempre aperta ai visitatori. Non esistono chiavi nella città dei tuareg del Ténéré. Non esistono neppure campanelli. Chi entra, viene accolto e non può sottrarsi al tradizionale tè verde, dolce, bollente e coperto di schiuma. Perché “un tè senza schiuma è come un tuareg senza turbante”. Per salire sopra il minareto, bisogna inginocchiarsi ed infilarsi in uno stretto cunicolo infestato da una folta colonna di pipistrelli. Quando finalmente rivedi la luce, è meglio se ti reggi forte per non cadere di sotto, che c’è spazio per una persona alla volta e ti pare di essere un lillipuziano sopra la torre più alta di una castello di sabbia. Se getti lo sguardo verso sud, puoi ancora scorgere qualche macchia di verde stanco. A nord, sotto il grande massiccio dell’Aïr, Ayăr per i tuareg, c’è solo il deserto del Ténéré, l’ultima propaggine meridionale dell’immenso Sahara. Ma quello che il tuo sguardo non riuscirà mai a scorgere è la frontiera.

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“Nel 2015 il Governo di Niamey ha approvato una legge che gli era stata richiesta espressamente dall’Unione europea con la quale tutti i non nigerini che si trovano nella mia città e a nord di essa sono dichiarati migranti irregolari – mi racconta Rhissa Feltou, sindaco di Agadez -. L’obiettivo dichiarato della legge era quello di contrastare l’immigrazione diretta verso l’Europa ma i risultati sono stati controproducenti. Il Niger fa parte della Comunità economica dell’Africa occidentale che ha una moneta unica e consente la libera circolazione dei suoi cittadini, proprio come per la vostra Unione europea. Ma con questa legge, tutti i burkinabé, gli ivoriani, i nigeriani e gli altri cittadini comunitari che si trovavano nella mia città sono diventati improvvisamente ‘clandestini’.

Molti di loro venivano ad Agadez per lavorare ed ora non lo possono più fare. La frontiera imposta dall’Europa ha portato in Niger la crisi economica e si è rivelata una vera e propria fabbrica di migranti irregolari. Anche il turismo che per noi era una fonte importante di reddito è tramontato. La nostra città era la porta del deserto ed ora questa porta è stata chiusa. Il traffico di esseri umani, però, continua come prima e più di prima, solo che è gestito interamente dalla criminalità organizzata”. Il sindaco Rhissa Feltou è noto per aver preso a ceffoni il ministro dell’Interno, l’ultima volta che questi si era azzardato a salire ad Agadez per spiegare ai tuareg i vantaggi della sopraccitata legge. Ceffoni veri, intendiamo, non morali, di quelli dati sul viso a mani aperte. I tuareg non sono famosi nel mondo per la loro diplomazia.

Ibrahim Manzo Diallo è il direttore di Radio Sahara e scrive in uno dei principali giornali del Niger. È un giornalista piuttosto noto nel suo Paese. Il che non gli impedisce di trascorrere qualche mese in galera, ogni qualvolta si azzarda a scrivere “la verità sostanziale dei fatti”. Che poi è quella cosa alla quale dovremmo attenerci tutti noi che facciamo questo mestiere. Solo che in qualche Paese è più rischioso che in altri. Mi riceve nel giardino sotto la sede della sua radio perché nella redazione – un computer da dividere tra due colleghi che ha ancora uno schermo con i led verdi – fa troppo caldo. Mi mette in mano l’inevitabile tè caldo e mi racconta come le piste che salgono a nord siano un cimitero di cadaveri insepolti e mi spiega il perché, appena arrivato ad Agadez, il commissariato di Polizia mi abbia interrogato per tre ore e alla fine mi abbia rilasciato con l’ordine di mettere il naso fuori di casa solo sotto scorta militare. Una questione di “sicurezza”, mi hanno detto. Termine questo, per il quale ho sviluppato un’autentica allergia etica che mi costringe a virgolettarlo sempre.

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L’unica cosa sicura è che non vogliono che un giornalista europeo veda i cadaveri dei migranti abbandonati nel deserto. Pezzi di uomini, di donne e di bambini che spuntano dalla sabbia tra una duna e l’altra. La legge che ha istituito questa assurda frontiera all’interno di un unico Paese non ha certo fermato i profughi che arrivano ad Agadez in fuga da tutti i confini del Niger. Al sud del Paese ci sono gli islamisti criminali di Boko Haram, la zona dei laghi del Ciad è un inferno… ora scappano anche dal Burkina Faso dove ci sono stati più di 200 tra attentati e attacchi ai villaggi negli ultimi 12 mesi. Gruppi paramilitari finanziati dall’Occidente o dall’Arabia Saudita si scannano dappertutto per il possesso di regioni ricche di petrolio, oro e uranio. Il Niger è diventato un imbuto ed Agadez è la bocca di questo imbuto. L’UNHCR gestisce tre campi profughi fuori città, in mezzo al nulla del deserto, ma la gente non ce la fa più a stare là e vuole andarsene. Si rivolgono ai trafficanti ma il loro destino è quello di morire di sete e di caldo nel deserto dove vengono abbandonati vivi. Voi in Europa, parlate tanto del Mediterraneo e dei migranti che muoiono annegati in mare. E, giustamente, vi indignate. Ma è qui, su questa frontiera di sabbia, che la vostra frontiera di morte sta compiendo una inenarrabile strage”.


Profilo dell'autore

Riccardo Bottazzo
Giornalista professionista e veneziano doc. Quando non sono in giro per il mondo, mi trovate nella mia laguna a denunciare le sconsiderate politiche di “sviluppo” che la stanno trasformando in un braccio di mare aperto. Mi occupo soprattutto di battaglie per l’ambiente inteso come bene comune e di movimenti dal basso (che poi sono la stessa cosa). Ho lavorato nei Quotidiani dell’Espresso (Nuova Venezia e, in particolare, il Mattino di Padova). Ho fatto parte della redazione della rivista Carta e sono stato responsabile del supplemento Veneto del quotidiano Terra. Ho all’attivo alcuni libri come “Liberalaparola”, “Buongiorno Bosnia”, “Il porto dei destini sospesi”, “Caccia sporca”, “Il parco che verrà”. Ho anche curato e pubblicato alcuni ebook con reportage dal Brasile pre mondiale, dall’Iraq, dall’Algeria e dalla Tunisia dopo le rivoluzioni di Primavera, e dal Chiapas zapatista, dove ho accompagnato le brigate mediche e un bel po’ di carovane di Ya Basta. Ho anche pubblicato racconti e reportage in vari libri curati da altri come, ricordo solo, gli annuari della Fondazione Pace di Venezia, il Mio Mare e Ripartire di FrontiereNews.
Sono direttore di EcoMagazine, sito che si occupa di conflitti ambientali, e collaboro con Melting Pot, FrontiereNews, Global Project, Today, Desinformemonos, Young, Q Code Mag, il Manifesto e lo Straniero. Non riesco a stare fermo e ho sempre in progetto lunghi viaggi. Ho partecipato al Silk Road Race da Milano a Dushanbe, scrivendo reportage lungo la Via della seta e raccogliendo racconti e fotografia in un volume.
Non ho dimenticato la formazione scientifica che ho alle spalle e, quando ho tempo, vado a caccia di supposti fantasmi, case infestate o altri "mysteri" assieme agli amici del Cicap, con il quale collaboro per siti e riviste.

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