Limonov, egocentrismo e contraddizioni dell’ultimo grande scrittore bolscevico

Scrittore, artista, politologo, dissidente, ma anche combattente nei Balcani. Eduard Limonov ha vissuto tante vite in una sola. Una vita che lui stesso definisce dalla parte dei più deboli, sebbene le sue azioni siano spesso considerate insopportabili ed estreme. Diventato celebre grazie alla biografia romanzata di Emmanuel Carrère, in questi giorni si trova in Italia per presentare Boia, scritto a Parigi nel 1982 e pubblicato nel 1986, dove racconta in qualche modo la vita mondana newyorkese. Il libro, estremamente violento, quest’anno è stato nuovamente pubblicato da Sandro Teti Editore. Abbiamo incontrato Limonov durante la presentazione di Milano.

di Tatjana Đorđević Simic

Potremmo descrivere Boia come un romanzo sulla degenerazione della New York iperliberista degli anni ‘80. Quanto c’è di Eduard Limonov nel suo protagonista Oscar Chudzinski, l’immigrato polacco che nel dolore trova il piacere?

Secondo me il Joker del film recentemente uscito ricorda molto il protagonista del mio romanzo. La violenza e il sesso sono i veri protagonisti del libro, ma non mi ci riconosco. Ho sperimentato molto nella vita, ma ho scelto un altro destino.

Lei ha vissuto per un periodo a New York. Che cosa pensa degli Stati Uniti di oggi?

È un paese potente, ma che ultimamente sta perdendo potenza e influenza.

Trent’anni fa è caduto il muro di Berlino, tra breve ci sarà anche l’anniversario della dissoluzione dell’Unione Sovietica. Qual è il suo ricordo della vita nell’URSS? C’è qualcosa che l’Unione Sovietica aveva in più rispetto al mondo occidentale? 

Nel contesto geopolitico di allora, l’Unione Sovietica era assolutamente necessaria per l’esistenza del popolo russo. Era una sorta di sentinella che teneva sotto controllo lo spazio euro-asiatico. La caduta del muro di Berlino è stata accolta con grande entusiasmo in Occidente, ma in realtà si è trattata di un fenomeno negativo. In quel periodo mi trovavo in Serbia e sono stato testimone di come stavano risorgendo gli interessi dei tedeschi nei confronti della Croazia, della Serbia e di tutta l’area ex jugoslava.

Ci spieghi meglio.

La Germania aveva armato la Croazia. Io, insieme ai combattenti serbi, ho combattuto contro due aerei pieni di armamenti destinati ai croati. Diciamo che la caduta del muro di Berlino ha fatto risorgere antichi demoni, in realtà mai scomparsi, e ha creato nei politici tedeschi la volontà di occupare, questa volta non territorialmente ma economicamente, tutta quell’area che una volta apparteneva all’impero austro-ungarico. Il suicidio dell’URSS, io lo chiamo così, ha dato vita a una grande quantità di conflitti e l’Ucraina ne è uno degli esempi più pregnanti.

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E dal punto di vista umano? Trova delle differenze tra l’URSS e l’Occidente? 

Prima di tutto il popolo russo era privo delle informazioni che venivano dall’Occidente, non sapevamo bene quale fosse la realtà. Abbiamo sempre visto l’Europa occidentale attraverso delle lenti rosa, mitizzandola in qualche modo. Adesso questi filtri sono caduti e i cittadini russi vedono l’Occidente per quello che è. E non lo apprezzano più. Inoltre non possiamo tollerare le sanzioni a cui siamo sottoposti, come se fossimo dei ragazzini.

Lei afferma di aver combattuto con i serbi durante la guerra degli anni ‘90. Perché ha deciso di stare dalla loro parte? E soprattutto al fianco di Radovan Karadžić, che è considerato come uno dei più grandi criminali di guerra del ventesimo secolo?

Uno dei motivi principali è stato lo schierarsi con i più deboli. La Serbia da sola doveva combattere 27 paesi in combutta contro di lei. E poi, come spesso accade, si tratta di questioni legate del tutto alla casualità. In quel periodo avevo già scritto otto libri, tutti pubblicati in Serbia. Inoltre da quelle parti avevo lavorato molto su invito del giornale Borba, che ai tempi era uno dei più importanti quotidiani. È proprio questo che mi ha spinto ad avvicinarmi al popolo serbo.

Che relazione aveva con Karadžić?

Mi trovavo nella città di Pale, che ai tempi era la capitale della Serbia in Bosnia. All’epoca ero un giornalista freelance e un regista della BBC mi propose di fare un reportage e intervistare Karadžić. In quegli anni nessun giornalista avrebbe rifiutato una proposta del genere. E quindi ebbi la possibilità di conoscerlo da vicino, come mi accadde in seguito con tutti coloro che sono stati ospiti del carcere del Tribunale dell’Aia, tipo Ratko Mladić, Slobodan Milošević e Biljana Plavšić.

In un video, proprio della BBC, è possibile vederla mentre spara con un kalashnikov verso la città di Sarajevo. Sparare non è un lavoro giornalistico.

Io non ho sparato contro i civili, ho sparato contro persone armate. Non c’è nessun filmato dove io sparo contro la popolazione civile.

Lei è anche famoso come grande oppositore di Putin. Come è vista in Russia la posizione di Putin rispetto all’Occidente?

Per me Putin è un politico moderato. Anzi, molto moderato. In Russia c’è uno slogan che dice: “La Crimea per noi è troppo poco”. Il nostro popolo ha ancora quell’approccio, quel vizio imperiale. Noi vogliamo ricostruire l’antica potenza. Tutti i popoli sono militaristi e vogliono sempre riconquistare i territori perduti, i territori che sono stati occupati. Quando per esempio c’è stata la riunificazione della Crimea, in strada incontravi gente che sorrideva, erano tutti felici. Tutti i popoli vogliono essere grandi e che il proprio paese goda di prestigio nel mondo. Questo vale anche per noi russi.

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In questi giorni si parla molto di un nuovo focus per la NATO, su una nuova strategia relazionale nei confronti di Cina e Russia. È realistico pensare che la Russia possa diventare partner dell’Europa?

Donald Trump non è un politico con tanta esperienza. A volte ricorda l’ultimo Reagan, che divenne anti-comunista quando il comunismo ormai non c’era più. Trump è il presidente che mostra i muscoli a tutti, cercando di creare l’immagine di un’America in grado di combattere contemporaneamente contro il mondo intero. Ma ora è chiaro che gli Stati Uniti non possono affrontare insieme i due giganti e che devono cambiare la loro strategia. In qualche modo dovrebbero portare dalla loro parte la Russia.

La Russia è un grande esportatore di materie prime. Nella sua visione del mondo preferirebbe vedere il suo paese alleato economicamente con l’Europa oppure con la Cina?

È la domanda che dovrebbe porsi l’Occidente. Noi siamo sotto sanzioni. Sono veramente stupito del comportamento dell’Occidente e della sua politica. In più, esiste il pericolo della possibile l’alleanza tra la Cina e il mondo musulmano. La Russia ama l’Europa e questo è un fatto inconfutabile. Noi, invece, non ci fidiamo dei cinesi, ma siamo stati costretti da parte dell’Occidente a collaborare con loro. Sono stati proprio l’Occidente e gli Stati Uniti a spingerci tra le braccia della Cina.

Lei ha trascorso quattro anni in prigione accusato di terrorismo, cospirazione contro l’ordine costituzionale e traffico di armi. Eppure negli ultimi anni la sua visione nei confronti del governo russo e di Putin sembra cambiata. Come è avvenuta questa trasformazione e cosa pensa oggi di Putin? 

Mi piacerebbe non misurare tutto in base a Putin o prenderlo come riferimento per ogni cosa. Lui è un uomo potente ed è un frontman della politica globale. Ultimamente gira voce che mi sono schierato con Putin, ma questo non è vero. Io non condivido la sua politica, in quanto penso che sia un falso nazionalista e che attualmente al potere ci sia una struttura oligarchica. In ogni caso, con il proprio comportamento l’Occidente ha fatto un favore a Putin, aumentandone così la popolarità in Russia. Io ho una visione molto diversa dalla sua, sono più orientato verso il socialismo popolare.

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In Italia si parla molto dei presunti finanziamenti russi alle casse del leader leghista Matteo Salvini. Cosa ne pensa di questo caso? 

Milano è una città così ricca che sarebbe più probabile che Matteo Salvini finanziasse la Russia, e non viceversa. Credo che si tratti di una fake news servita per destabilizzare la posizione di Salvini.

Che cosa ne pensa oggi del suo vecchio partito e del filosofo Aleksandr Dugin, che ultimamente vediamo così spesso in Italia?

Io e Aleksandr Dugin fondammo il partito Nazional Bolscevico nel 1993. Lui però ne uscì nel ‘98. Oggi, noi due siamo in ottimi rapporti e quando ci incontriamo, sempre occasionalmente, ci scambiamo i rispettivi numeri di telefono sapendo però che non ci telefoneremo mai.

Che cosa è rimasto del partito Nazional Bolscevico?

Nel 2007 il mio partito è stato messo fuorilegge, anche prima che fossero messe fuorilegge le organizzazioni terroristiche islamiche in Russia. Per quanto riguarda invece il partito “Altra Russia”, quello è stato fondato nel 2010. Oggi, gli ex militanti di quel partito o sono morti o si sono disinteressati, e quel partito non esiste più. Mentre il mio primo partito continua ad esistere anche clandestinamente.


foto copertina via Dazed


Profilo dell'autore

Tatjana Đorđević Simic

Tatjana Đorđević Simic
Corrispondente dall'Italia per vari media della Serbia degli altri paesi dell'ex Jugoslavia, vive in Italia dal 2006 e da allora ha collaborato con molte riviste di geopolitica italiane e internazionali. Attualmente scrive per Al Jazeera Balkans e per la versione in serbo della BBC. È membro dell'International Federation of Journalist e dal marzo 2020 è il Consigliere Delegato dell'Associazione Stampa Estera Milano

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