Una rete capillare di telecamere a circuito chiuso e il monitoraggio sistematico dei pagamenti con carta di credito hanno evitato che la Corea del Sud si trasformasse in una nuova Wuhan. Le altre democrazie liberali saranno disposte a implementare un sistema di controllo ultra-invadente per contenere la pandemia del COVID-19?
di Jung Won Sonn — Professore associato di Sviluppo economico urbano presso la UCL (University College London)
La Corea del Sud è stata erta a modello virtuoso per la gestione della diffusione del nuovo coronavirus (SARS-CoV-2) e dell’epidemia di COVID-19. Nell’analizzarne le dinamiche, si è posta particolare enfasi sull’enorme quantità di test effettuati per verificare la presenza del virus nel Paese.
Meno risalto è stato però dato al fatto che la Corea del Sud ha fatto uso massiccio di tecnologia di sorveglianza – in primis usando telecamere a circuito chiuso e monitorando l’utilizzo di carte di credito e telefoni cellulari – per identificare i soggetti da sottoporre al test. Si tratta di una lezione importante per quei paesi più liberali che sperano di emulare il successo della Corea del Sud, pur essendo probabilmente meno tolleranti nei confronti di tali misure di invasione della privacy.
Se Taiwan e Singapore hanno dimostrato grande capacità di contenere la diffuzione del nuovo coronavirus, la Corea del Sud e la Cina rappresentano probabilmente il migliore esempio di efficienza nel gestire le epidemie quando si è in presenza di un gran numero di persone infette. La Cina ha messo in quarantena i contagiati (confermati e potenziali), imposto restrizioni ai movimenti dei cittadini e limitato i viaggi internazionali. Ma la Corea del Sud ha raggiunto un livello di controllo simile e un basso tasso di mortalità (attualmente l’1%) senza ricorrere a tali misure autoritarie. In linea, apparentemente, con gli standard delle nazioni democratiche liberali.
La parte più evidente della strategia sudcoreana è abbastanza semplice: effettuare test a oltranza e su larga scala. Il Paese ha imparato la lezione dell’esplosione della MERS nel 2015 e ha riorganizzato il suo sistema di controllo delle malattie. Ha un sistema sanitario all’avanguardia e dalla grande capacità, nonché una sofisticata industria biotecnologica in grado di produrre rapidamente test kit.
Questi fattori consentono al paese asiatico di eseguire 15000 test al giorno – rendendolo secondo solo alla Cina in numeri assoluti e terzo al mondo per test pro capite. Ma poiché il COVID-19 è una malattia lieve per la maggior parte delle persone, solo una piccola parte dei pazienti tende a contattare le autorità sanitarie per sottoporsi al test, in base ai sintomi o al contatto con persone riconosciute come infette. Molti pazienti con sintomi lievi, in particolare i più giovani, non si rendono conto di essere malati e di infettare gli altri.
Se non si riesce a intercettare questi soggetti, la grande capacità di effettuare test perde di significato. È qui che entra in gioco l’infrastruttura della città intelligente, o smart city. L’obiettivo è capire dove sono state le persone contagiate e sottoporre al test chiunque possa esservi entrato in contatto. Esistono tre modi principali in cui le persone vengono monitorate.
Innanzitutto, tramite le carte di credito e debito. La Corea del Sud ha la più alta percentuale di transazioni senza contanti al mondo. Tracciando le transazioni, è possibile tracciare sulla mappa i movimenti dell’utente.
In secondo luogo, anche i telefoni cellulari possono essere utilizzati per uno scopo analogo. Nel 2019, la Corea del Sud ha avuto uno dei più alti tassi di proprietà di telefoni al mondo (ci sono più telefoni che persone). Le posizioni dei telefoni vengono registrate automaticamente con la massima precisione, perché i dispositivi sono – in qualsiasi momento – collegati fino a tre ricetrasmettitori. E ci sono circa 860.000 ricetrasmettitori 4G e 5G che coprono densamente l’intera nazione.
Fondamentalmente, le compagnie telefoniche richiedono a tutti i clienti di fornire i loro nomi reali e numeri di registro nazionali. Ciò significa che è possibile tracciare quasi tutti, seguendo la posizione dei loro telefoni.
Infine, anche la videosorveglianza consente alle autorità di identificare le persone che sono state in contatto con pazienti affetti dal COVID-19. Nel 2014, le città sudcoreane avevano a disposizione oltre 8 milioni di telecamere a circuito chiuso. Una telecamera ogni 6,3 persone. Nel 2010, ogni cittadino è stato ripreso con una media di 83,1 volte al giorno – ogni nove secondi – nei propri spostamenti. È molto probabile che oggi queste cifre siano persino più alte. Considerando le dimensioni fisiche del Paese, si può affermare che la Corea del Sud ha una delle più alte densità di tecnologia di sorveglianza al mondo.
Utilizzo dei dati
La combinazione di queste tre tecnologie significa due cose. In primo luogo, le autorità sanitarie possono scoprire chi è entrato in contatto con una persona infetta, dopo che quest’ultima è stata contagiata. Negli edifici pubblici ci sono dei punti morti senza telecamere o dove i telefoni cellulari non ricevono alcun segnale, ma non sono molti. Questo permette di identificare, e dunque sottoporre al test, quasi ogni potenziale infetto.
In secondo luogo, i movimenti di un nuovo paziente possono essere confrontati con quelli dei pazienti precedenti che utilizzano sistemi di informazione geografica. Tale confronto rivela esattamente dove, quando e da chi è stato infettato il nuovo paziente. Se non è possibile risalire a un infetto precedentemente riconosciuto come tale, ciò significa che esistono infetti non ancora identificati che vanno quindi intercettati mediante il metodo descritto sopra. In qualsiasi momento, si può usare il numero di infetti non identificati per rilevare se il virus si sta ancora diffondendo (in questo caso, nei giorni successivi si verificheranno più casi) o se la situazione sarà sotto controllo.
I dati del monitoraggio non vengono usati soltanto dalle autorità sanitarie, ma vengono resi pubblici telematicamente attraverso siti governativi (sia a livello nazionale che locale), app gratuite che mostrano le posizioni delle infezioni ed SMS che avvertono di nuovi contagi. Questo aiuta i cittadini a evitare i focolai di infezione.
Per molti aspetti, si tratta di una sovraesposizione di informazioni private relative ai movimenti delle persone. Ma è anche un modo efficace con cui le autorità mantengono la fiducia della popolazione, fondamentale per impedire alle persone di andare nel panico. Si potrebbe sostenere che questo obiettivo sia stato raggiunto, considerando che la Corea del Sud è uno dei pochi paesi in cui l’epidemia di COVID-19 non ha portato al “saccheggio” dei supermercati né ad altre forme di acquisti compulsivi dettati dal panico.
Tuttavia, esiste un aspetto fortemente problematico per gli altri paesi che considerano di implementare misure analoghe. È improbabile che le altre società democratiche liberali accettino di buon grado il livello di sorveglianza e di esposizione delle informazioni personali coinvolte.
La differenza tra l’approccio sudcoreano e quello dei paesi europei non va spiegata ricorrendo al solito cliché del collettivismo orientale contrapposto all’individualismo occidentale. Anzi, rendere pubbliche e accessibili queste informazioni può evitare che si debba sospendere la libertà di movimento delle persone.
In questo modo, ogni governo si trova ad affrontare una dura scelta tra queste due violazioni dei diritti individuali (l’esposizione delle informazioni e la limitazione dei movimenti). Se la Corea del Sud ha scelto la prima alternativa, Francia e Italia hanno dovuto necessariamente optare per la seconda. Il monitoraggio capillare richiede infatti delle infrastrutture adeguate e una cultura che tolleri un certo livello di sorveglianza. E nessuna delle due cose può essere creata dall’oggi al domani.
Questo articolo è stato pubblicato in inglese su The Conversation. Traduzione dall’inglese a cura di Valerio Evangelista, con il permesso dell’autore. Foto copertina di Yonhup/EPA
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