Cosa vuol dire essere un rom bulgaro. A Mondragone come a Sofia

A Mondragone, sul litorale casertano, risiede una cospicua comunità di bulgari. Circa ottocento, stando all’ultimo censimento, e principalmente di etnia rom. Un dato irrilevante, se non per motivi statistici, diventato però uno dei trending topic della settimana passata; i nuovi casi di Covid-19 all’interno della comunità e le violente proteste di alcuni residenti contro le restrizioni hanno infatti occupato un posto significativo nel dibattito pubblico. In Italia come in Bulgaria, dove risiedo da anni.

Nella mia bolla social ho assistito a una levata di scudi generale: bulgari in Italia e italiani in Bulgaria uniti dal rancore verso i media italiani, colpevoli di aver definito “cittadini bulgari” gli inquilini dello stabile “incriminato”. Quel “bulgari”, privato di riferimenti all’identità rom, ha tolto gli strumenti per stigmatizzare lo “zingaro” e creato i presupposti per l’equiparazione assiologica tra “zingari” e “bulgari”. Un’onta insopportabile, evidentemente. Un episodio di cronaca locale è perciò diventato la cartina al tornasole di uno spettro sociale mai sopito nel paese balcanico: la ziganofobia diffusa, istituzionalizzata e accettata da una grande parte della popolazione. La vulgata vuole infatti che i cittadini bulgari di etnia rom non siano “veri bulgari”, in quanto “originari dall’India” e colpevoli di depredare lo stato sociale bulgaro con il loro “stile di vita parassitario”.

Prima di ogni cosa, serve un minimo di contesto su chi siano i bulgari di Mondragone. Per farlo, mi avvalgo di una riflessione di Paolo Cagna Ninchi, presidente dell’associazione Upre Roma, attiva in progetti per l’inclusione della comunità rom: “Questi rom bulgari sono (…) i nuovi schiavi: vivono a Mondragone da 10 anni, agli italiani pagano 100 euro a persona in nero per poter avere un letto, lavorano sottopagati e in nero per produrre mozzarelle italiane e dagli italiani si sono pure presi il Covid-19 (…) anche questa volta dopo l’abbuffata di razzismo a basso costo tutto tornerà come prima: gli schiavi nei campi e nei caseifici, caporali, padroni e profittatori vari italiani a incassare e il problema si rimanda alla prossima rissa, al prossimo rogo, al prossimo morto”.

Tra i bulgari di Mondragone ci sono anche molti ragazzini rom caduti nelle reti della pedofilia locale. Una recentissima sentenza, emersa dal lavoro di Antonio Maria Mira su Avvenire, delinea un quadro agghiacciante: “Le vittime avevano anche solo 15 anni, i carnefici, condannati a sei anni, sono italiani. Un vero gruppo organizzato. Cinque-dieci euro, una ricarica telefonica, un paio di birre, tre sigarette. Egiziani, albanesi, bulgari. (…) Sì proprio bulgari, della comunità che vive nei palazzi diventati ‘zona rossa’ per il Covid-19, emarginati e sfruttati, e ora accusati di essere ‘untori’. (…) Ma la realtà che emerge dalla sentenza è l’opposto. I carnefici sono italiani mentre le vittime sono immigrati“.

Persino di fronte a questo orrore, molti sovranisti italiani e bulgari hanno sentito il bisogno di puntualizzare che i rom bulgari (spesso etichettati col dispregiativo паплач o ‘paplach’, cioè “gentaglia”) non saranno mai “abbastanza bulgari” a prescindere da cosa sia scritto sul loro passaporto. E che, in fin dei conti, sono persino colpevoli delle loro sventure, in virtù del dogma del “se voi _ _ _ _ _ _ siete perseguitati ovunque andiate, un motivo ci sarà” (sostituite pure i trattini con qualsiasi categoria vogliate: rom, ebrei, italiani, napoletani, musulmani, neri). Per destrutturare questa epidemica posizione identitaria, estrema quanto infondata, potrei citare studi antropologici e trattati accademici; preferisco però farlo raccontando la storia di Ivan G.*, un ragazzo bulgaro di etnia rom da anni residente in Italia. In Abruzzo, per la precisione, mia terra d’origine.

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Noi zingari dei paesi balcanici abbiamo abitato quelle terre da secoli. In Bulgaria, poi, eravamo presenti persino prima del dominio ottomano“, commenta Ivan sotto l’ennesimo post FB contro l’utilizzo del sostantivo “bulgari” in riferimento ai rom di Mondragone. Il post, scritto da una signora bulgara residente in Italia, è rapidamente diventato virale: centinaia di condivisioni e commenti – quasi tutti accomunati da un percepibile risentimento antizigano – tra i quali noto proprio la risposta di Ivan, lucida quanto rara in quel calderone di insulti e luoghi comuni. “Se ci chiamiamo bulgari è perché siamo cittadini bulgari da generazioni. Trovo abbastanza sciocco che io non debba sentirmi bulgaro – pur essendoli stati mio nonno, il mio bisnonno e anche il mio trisavolo – soltanto perché qualcuno crede di poter decidere, al posto mio, chi sono io”.  

Negli anni, ho imparato che in Bulgaria la divisione tra “noi” (bulgari) e “loro” (zingari) è apparentemente impossibile da scalfire o mettere in discussione. Rom e bulgari, pur essendo cittadini dello stesso stato, sarebbero parte di due mondi paralleli e inconciliabili. Contatto Ivan e gli chiedo di continuare a raccontare la doppia identità dei rom bulgari dal suo punto di vista (alcune frasi sono state modificate per una maggiore concisione e incisività comunicativa, seppur lasciate inalterate nel loro significato). 

Il passaporto non è l’unica cosa comune. Sono cresciuto in un piccolo paesino dove la nostra non è una comunità distinta come lo è nelle grandi città. Ho sempre avuto amici ‘bulgari’, come lo erano anche molti vicini di casa e tantissimi amici dei miei genitori. L’unica differenza che mi viene in mente è che noi festeggiamo il capodanno anche il 14 di gennaio. A proposito di festeggiamenti, in Bulgaria il divertimento ‘alla zingara’ è più apprezzato di quanto si pensi; la nostra musica e i nostri balli sono infatti tra i più diffusi nel Paese. Da un punto di vista fisionomico, molti bulgari hanno pelle, capelli e occhi di colore scuro. Questo tratto, piuttosto raro in altri paesi slavi (come polacchi, croati, serbi o cechi), è dovuto sia alla presenza storica dei nostri trascendenti zingari che al lunghissimo dominio ottomano. Parlare di razze ed etnie è fuori luogo ovunque, ma in Bulgaria lo è ancora di più. Un esempio: dopo appena cent’anni di identità italiana, oggi gli abitanti del Sud Tirolo non sono considerati austriaci con passaporto italiano, ma italiani a tutti gli effetti; e allora perché la popolazione rom in Bulgaria, che si trova lì dal tredicesimo secolo, viene ancora oggi definita come ‘zingari con passaporto bulgaro’ dalla maggioranza dei bulgari ‘autoctoni’? Ascoltando le loro ragioni sembrerebbe trattarsi di una questione oggettiva, ma non è così. Posso studiare quanto mi pare, lavorare e fare una vita ‘normale’, ma per alcuni di loro non sarò mai alla loro altezza“.

Inoltre, come spiega Vania Anguelova in un articolo su OBCT, “i rom in Bulgaria sono forse il gruppo più eterogeneo tra le diverse minoranze etniche presenti nel Paese. Sono considerati come un gruppo omogeneo solo dall’esterno, dai non-rom. È improprio infatti parlare di un gruppo unico e compatto. Vi è una marcata varietà all’interno del loro ‘sistema sociale'”. Il pregiudizio antizigano è spesso una conseguenza diretta di problemi di infrastruttura o sociali, che l’autorità può e deve risolvere. Le grandi città sembrano infatti ricordarsi delle comunità rom solo in campagna elettorale per poi abbandonarle, lasciandole di fatto all’autogestione. Questo è uno dei principali motivi dell’alto tasso di criminalità e delle pessime condizioni di vita nei quartieri a maggioranza rom. Questa percezione trova un riscontro anche nel nostro interlocutore:

È vero che molti residenti dei cosiddetti ‘ghetti’, cioè gli affollati quartieri popolari delle principali città, sono distaccati dal mondo“, continua Ivan, ventiquattro anni, proveniente da una cittadina di provincia nel nord-ovest della Bulgaria. “Nelle grandi città gli zingari hanno da sempre vissuto nei loro quartieri; addirittura, alcuni di loro vi trascorrono tutta la loro vita senza mai uscirne fuori e tutt’ora fanno fatica a parlare il bulgaro. Dovremmo chiederci, però, a chi conviene il mantenimento di questa situazione. Ovviamente, le persone povere e ignoranti sono facili da manipolare e manovrare; parte della comunità rom delle grandi città, e questo non è un segreto, viene usata per spostare consensi elettorali in cambio di qualche soldo, o addirittura di un sacco di farina o un panino. Non facciamone una questione etnica, ma sociale“.


Rom in Bulgaria, un documentario per approfondire:
Paradise Hotel di Sophia Tzavella


Durante gli anni del comunismo, in Bulgaria tutto era dello stato e tutti dovevano per forza lavorare, obbligatoriamente. Questo ha fatto in modo che nessuno aveva, né poteva avere, più di un altro. Il governo aveva persino previsto delle multe per chi usasse il termine ‘zingari’ per rivolgersi ai rom, in un tentativo di assimilazione quale via per risolvere la “questione zingara“. Con il crollo del regime, l’uguaglianza formale perde la sua forza e torna in superficie l’invidia sociale, portando con sé il desiderio di vendetta e di segregazione. “Dai racconti dei miei nonni, ho compreso che il problema subentra con la caduta del comunismo. Le proprietà dello stato – per lo più le terre agricole – sono state suddivise tra i cittadini tramite regole poco chiare. Ai rom non è stato dato nulla. All’alba della democrazia noi siamo partiti da zero: è così che ha avuto inizio la differenza tra le classi sociali, basate anche sull’etnia“.

I nonni di Ivan hanno iniziato a lavorare da adolescenti e hanno continuato a farlo, senza sosta, fino alla caduta del regime. Poi, non avendo più un lavoro, sono stati costretti a lavorare per i bulgari, che da un giorno all’altro sono diventati i loro padroni.

Anche i miei genitori hanno affrontato non poche difficoltà. Mio padre lavorava in un mulino, anch’esso statale, ma sotto la gestione di sua zia. Qualche anno dopo l’inizio della democrazia, la zia è stata costretta a lasciare la gestione del mulino per dei cavilli burocratici. Oggi mi rendo conto che a molti non andava bene che fosse una zingara a gestire quell’importante attività commerciale. Con il cambio di gestione, mio padre resistette soltanto per qualche mese, poi andò via perché veniva pagato meno degli altri operai bulgari“.

Un paio di anni fa ho avuto modo di ascoltare una storia analoga, durante un viaggio in treno. Raccontata però da un’altra prospettiva: un uomo italiano, un imprenditore milanese residente nelle campagne bulgare, si vantava di come fosse semplice ottenere manodopera sottocosto ricorrendo ai braccianti rom, meno esigenti degli altri bulgari: “Dopo il comunismo hanno perso il diritto alla terra, di fatto, e la loro dignità. Oggi potrei persino bastonarli, se volessi, ma a fine mese mi sarebbero comunque riconoscenti perché concedo loro un pacco di riso in più”. Due racconti non fanno una prassi, certo, ma il fil rouge è evidente. Guardo il mio telefono distratto. Ricevo un altro messaggio di Ivan:

Un giorno, quando eravamo in una situazione economica difficile, mio padre portò a casa un sacco pieno di farina: era la moneta per avere il suo voto alle elezioni. Una tragica ironia: la produzione della farina era, un tempo, l’attività di famiglia; con il passare del tempo, mio padre si è trovato a vendersi per portarne un po’ a casa. Io ero piccolo, ma quell’episodio mi è rimasto impresso per via della tristezza e del senso di inferiorità visibili sul volto di mio padre. E ci penso ancora oggi. Non ho mai avuto problemi nell’essere povero. Ma tra essere poveri ed essere sottomessi, c’è una gran differenza“.

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Ivan frequentava la scuola media quando i suoi genitori emigrarono in Spagna, dove vivono ancora oggi. Fu allora che una parente, sposatasi con un uomo italiano, gli trasmise l’interesse verso l’Italia. Non c’erano soldi per un corso di lingua e Ivan non aveva neanche sufficiente internet per usare traduttori automatici. Il suo unico legame con l’Italia era un vecchio cellulare, con il quale poteva navigare su una versione in html di Facebook che non richiedeva dati internet a consumo. Iniziano così i primi scambi con dei connazionali residenti in Italia, preziosa finestra per imparare le prime frasi di senso compiuto. Pochi anni dopo, la svolta: una compagna di classe regala a Ivan un dizionario bulgaro-italiano, fino a quel momento immerso nella polvere della libreria di casa sua.

Sono venuto in Italia appena dopo essermi diplomato. Qui ho iniziato, quasi da subito, un tirocinio amministrativo tramite Garanzia Giovani. Poi la ditta ha scelto di investire su di me e mi ha assunto. Lavoro ancora lì, a ottobre saranno sei anni. Ho affrontato molti sacrifici, raggiungendo un traguardo dopo l’altro. Mi ero anche iscritto all’università, ma ho sospeso gli studi per fare un secondo lavoro: di giorno ero in ufficio, di sera lavoravo in un ristorante (e poi in un bar). Volevo comprare casa; sai, da piccolo avevo il sogno di possedere una casa bella, grande, che avesse persino un bagno dentro. Alla fine sono riuscito a comprare casa. Ci sono ben tre bagni“.


[in copertina: delle donne assistono inermi alla demolizione della loro casa in un quartiere a maggioranza rom nella città di Maglizh, Bulgaria centrale — Fonte: Reuters/Stoyan Nenov]
*Il nome della persona intervistata è stato cambiato su sua richiesta.

Profilo dell'autore

Valerio Evangelista

Valerio Evangelista
Dal suo Abruzzo ha ereditato la giusta unione tra indole marinara e spirito montanaro. Su Frontiere, di cui è co-fondatore, scrive di diritti umani e religioni.

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