Il COVID-19 ha affossato economia e sanità pubblica in Palestina, già devastata dall’occupazione israeliana della Cisgiordania e dall’embargo a Gaza. I medici (israeliani e palestinesi) e le associazioni umanitarie stanno lanciando l’allarme.
Secondo l’ultimo rapporto della Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo (UNCTAD) sulla situazione economica in Palestina, il COVID-19 ha aggravato le terribili condizioni economiche nei territori palestinesi occupati. Già prima della pandemia, la stessa UNCTAD prevedeva un biennio ’20-’21 devastante per l’economia palestinese, con una stima di diminuzione del PIL pro capite tra il 3% e il 4,5%.
In effetti, i tassi di povertà e di disoccupazione sono rimasti elevatissimi (attorno al 30%), il PIL pro capite è diminuito per il terzo anno consecutivo, la Cisgiordania ha registrato il suo tasso di crescita più basso dal 2012 (1,15%), mentre la Striscia di Gaza è praticamente a crescita zero.
A minare l’economia palestinese è anche l’occupazione israeliana, che per il popolo palestinese ha un costo non soltanto umano, politico e territoriale, ma anche monetario. Ricordiamo che è Israele a riscuotere le tasse per conto dell’ANP, alla quale eroga le somme raccolte in modo arbitrario e imprevedibile. Prima della pandemia, l’UNCTAD stimava che ogni anno l’agenzia delle entrate israeliana tratteneva dalle somme dovute al fisco palestinese una somma pari al 3,7% del PIL o al 17,8% del gettito fiscale totale. A questo si aggiunge il considerevole calo del sostegno dei donatori all’ANP, dal 32% del PIL nel 2008 al 3,5% nel 2019; a Gaza ben l’80% della popolazione dipende dà un’assistenza internazionale instabile.
È questo il contesto nel quale vanno inserite le conseguenze economiche delle restrizioni imposte per contenere i contagi da COVID-19. Appena un mese dopo lo scoppio della pandemia, le entrate fiscali raccolte dall’ANP sono scese ai livelli più bassi degli ultimi vent’anni; l’impianto sociale è stato poi ulteriormente indebolito dall’aumento della spesa pubblica – in ambito sanitario, previdenziale e di sostegno alle imprese – reso necessario dalla pandemia.
Varie stime sul costo della pandemia indicano una perdita economica compresa tra il 7% e il 35% del PIL, a seconda delle ipotesi di previsione sulla gravità e la durata della pandemia. Sotto l’occupazione, l’ANP non dispone dello spazio politico e degli strumenti di politica economica necessari per affrontare l’enorme sfida posta dalla pandemia. Non ha accesso a prestiti esteri, non ha una valuta nazionale propria, non ha una politica monetaria indipendente e non ha autonomia fiscale.
“La comunità internazionale dovrebbe raddoppiare con urgenza il sostegno al popolo palestinese per consentirgli di far fronte alle ricadute economiche della pandemia. Non c’è alternativa al sostegno dei donatori per garantire la sopravvivenza dell’economia palestinese”, ha dichiarato il Segretario generale dell’UNCTAD Mukhisa Kituyi.
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All’aumentare di casi di COVID-19, i ministeri della Salute a Gaza come a Ramallah hanno riconosciuto che la loro capacità di contenere la diffusione del virus fosse limitata dalla carenza di attrezzature sanitarie, tra cui farmaci e materiale sanitario usa e getta.
Nonostante le premesse, le autorità sanitarie hanno imposto misure di prevenzione drastiche, che hanno ampiamente contribuito a un tasso di infezione molto basso durante i primi tre mesi della crisi. Ma gli sforzi sono stati ostacolati dalle restrizioni pesanti che il sistema sanitario palestinese si trova ad affrontare da anni; la separazione tra Gerusalemme est, Gaza e Cisgiordania e le restrizioni che Israele impone alla libertà di movimento dei pazienti, delle attrezzature mediche e del personale sanitario, ostacolano infatti a livello strutturale il corretto funzionamento del sistema sanitario palestinese.
L’embargo imposto congiuntamente da Israele ed Egitto tredici anni fa lascia Gaza senza materiale sanitario e con un personale medico privo di conoscenze mediche aggiornate. Sono più di novemila i pazienti – un quarto dei quali è malato di cancro – che ogni anno hanno bisogno di cure non disponibili a livello locale e che quindi devono chiedere dei permessi speciali a Israele per lasciare la Striscia di Gaza. La diffusione del COVID-19 non ha fatto altro che peggiorare la situazione. A titolo di esempio, l’autorevole rivista medica The Lancet ricorda che a Gaza vi sono soltanto 87 posti letti di unità di terapia intensiva con ventilatori per quasi 2 milioni di persone.
La sezione israeliana dell’organizzazione Physicians for Human Rights ha chiesto che Israele agisca in modo trasparente e pubblichi le proprie politiche di prevenzione nei territori palestinesi che esso occupa. La Convenzione di Ginevra impone alla potenza occupante di “assicurare, nella piena misura dei suoi mezzi, e di mantenere, con il concorso delle autorità nazionali e locali, gli stabilimenti e i servizi sanitari e ospedalieri, come pure la salute e l’igiene pubbliche nel territorio occupato, specie adottando e applicando le misure profilattiche e preventive necessarie per combattere il propagarsi di malattie contagiose e di epidemie”. Eppure, le restrizioni imposte lasciano migliaia di persone senza accesso a cure adeguate.
Inizialmente sembravano esserci segnali incoraggianti su una collaborazione senza precedenti tra Israele, Autorità nazionale palestinese e Hamas per fronteggiare in maniera coordinata l’avanzare della pandemia. Ma il miraggio è durato poco. Azioni israeliane ritenute illecite – come la confisca di materiale per realizzare un ospedale da campo o l’annuncio di un nuovo piano di annessione dei territori palestinesi occupati – hanno provocato un irrigidimento della leadership palestinese, minando il già delicatissimo equilibrio tra Tel Aviv, Ramallah e Gaza. In un movimento congiunto, cinque organizzazioni israeliane per i diritti umani hanno avanzato una petizione alla Corte Suprema di Israele affinché vengano prese tutte le misure necessarie per consentire ai palestinesi trattamenti medici in condizioni dignitose. In particolare, è stato chiesto di revocare l’assedio e l’embargo della Striscia di Gaza per consentire il corretto funzionamento del sistema sanitario e di altri servizi essenziali, garantendo la circolazione delle merci necessarie a fini medico-sanitari, contribuire al rifornimento di medicinali e altro materiale mancante nella misura più ampia possibile, e infine collaborare con Hamas e l’Autorità nazionale palestinese per trovare soluzioni per i pazienti che attualmente non possono lasciare la Striscia di Gaza ma devono ricevere cure non disponibili localmente. Le associazioni coinvolte nella petizione sono: Gisha, centro legale per la libertà di movimento dei palestinesi; Adalah, centro legale per i diritti della minoranza araba in Israele; HaMoked, nata per difendere i diritti dei palestinesi sottoposti all’occupazione; the Association for Civil Rights in Israel; e Physicians for Human Rights Israel.
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