Gli interessi della Casa Bianca dietro l’accordo tra Serbia e Kosovo

Il 4 settembre scorso i due stati hanno firmato a Washington l’accordo per normalizzare i rapporti economici. Presentato come un grande successo diplomatico, gli effetti di questo accordo si sentiranno più in Medio Oriente che nei Balcani

di Tatjana Đorđević Simic

Quando a ottobre dell’anno scorso l’ex ambasciatore statunitense in Germania, Richard Grenell, è stato proclamato come inviato speciale dell’amministrazione Trump per normalizzare i rapporti tra Belgrado e Priština, molti si chiedevano cosa aspettarsi, dato che l’Unione Europea per anni aveva guidato le trattative tra Serbia e Kosovo senza grandi risultati. Sembrava irrealistico sperare in qualcosa che avrebbe cambiato in modo radicale i rapporti tra i due paesi, ma era evidente che sia il presidente serbo che il premier kosovaro avessero accettato le condizioni della Casa Bianca.  

Condizioni delle quali nessuno aveva parlato prima che l’accordo tra i due stati fosse stato firmato a Washington il 4 settembre. Davanti all’attuale presidente degli Stati Uniti Donald Trump, i due leader, il presidente Aleksandar Vučić e il premier Avdullah Hoti, hanno firmato quello che lo stesso Trump ha definito un trattato storico.

Sebbene l’accordo effettivamente contenga alcuni punti positivi, come l’espansione dei collegamenti stradali e ferroviari oppure la collaborazione in tema di energia – progetti che, va detto, erano già stati elaborati precedentemente – descriverlo come storico sarebbe un’esagerazione, per usare un eufemismo.

Invece di gettare le basi per ciò che si spera verrà prima o poi raggiunto – ovvero la normalizzazione delle relazioni economiche tra la Serbia e la sua ex provincia, il Kosovo, garantendo così il benessere del popolo – l’accordo in realtà sembra tutta un’altra cosa. Un serie di diverse questioni rilevanti soprattutto per il presidente Donald Trump in vista della sua campagna per le elezioni presidenziali statunitensi del prossimo novembre. 

Vincitori e vinti

I documenti firmati non hanno imposto a nessuno di riconoscere nessuno – il che sarebbe la questione più difficile, quando si tratta del riconoscimento dello stato di Kosovo come uno stato autonomo ed indipendente da parte della Serbia. Già, una piccola vittoria per il leader serbo che una volta tornato a casa ha presentato la sua visita alla Casa Bianca come un grande successo.

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Sembrerebbe però che né il presidente Vućić né il premier Hoti si siano resi conto di aver firmato due documenti un po’ diversi tra loro. Due documenti separati e non identici, contenenti ciascuno sedici punti uguali tranne uno. I due leader non si sono mai scambiati le cartelle con i documenti separati che hanno firmato, ma li hanno consegnati direttamente al presidente Trump. Nell’ultimo paragrafo di questa analisi spiegheremo in cosa consiste questa differenza sostanziale.

Come sostiene Agron Bajrami, giornalista del quotidiano kosovaro Koha Ditore, non c’è nessun effettivo accordo internazionale, visto che Vučić ha firmato qualcosa di diverso rispetto a Hoti. Inoltre non è neanche chiaro se i due leader avessero il potere necessario a firmare un accordo simile, né se i due parlamenti dovranno ratificarlo.

L’accordo, così com’è, è chiaramente un documento politico ma non sembra giuridicamente vincolante. Molti analisti pensano che sia stato modulato a partire dal desiderio della parte serba di evitare, anche implicitamente, di riconoscere la statualità del Kosovo. Cosa che sarebbe probabilmente accaduta se avessero firmato lo stesso documento.

Una grande vittoria per la Serbia, apparentemente. Appena atterrato a Belgrado, Vučić ha ribadito in conferenza stampa che la Serbia non riconoscerà mai il Kosovo come stato e che l’accordo firmato a Washington è un importante accordo bilaterale tra Serbia e Stati Uniti. Parole che hanno confuso il popolo ma anche lo stesso inviato speciale Richard Grenell, che ha smentito questa affermazione dichiarando che non è stato firmato nessun accordo tra gli Stati Uniti e i serbi.

Hezbollah, Huawei e omosessualità

Alla conferenza “Balkan Perspectives 2020 – The Fight for a Timely Inclusion” tenutasi lunedì 28 settembre a Roma, Damon Wilson, vice presidente esecutivo di Atlantic Council, ha dichiarato che una pace senza sviluppo non può funzionare.

“Abbiamo bisogno di un mondo libero e i Balcani devono farne parte. Quindi c’è un’urgenza di spingere in quella direzione, e gli Stati Uniti ora hanno un ruolo cruciale”, ha spiegato Wilson.

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Uno dei punti cruciali per lo sviluppo del territorio è la questione di fatto più difficile: la normalizzazione dei rapporti tra Serbia e Kosovo. Secondo Wilson l’accordo recentemente firmato è un grande risultato.

Tuttavia, oltre ad alcuni punti sicuramente positivi, i documenti firmati contengono alcune disposizioni singolari: quelle su Hezbollah, Huawei e l’omosessualità. In primo luogo, questo accordo di normalizzazione economica afferma che entrambe le parti lavoreranno per spingere i sessantanove paesi che criminalizzano l’omosessualità a depenalizzarla. Inutile dire che la Serbia e il Kosovo hanno da tempo depenalizzato l’omosessualità e questo non è mai stato oggetto di controversie tra di loro. In secondo luogo, i due paesi si impegneranno a riconoscere Hezbollah come organizzazione terroristica. Infine, c’è la cosiddetta questione di Huawei, ovvero la disposizione in cui le parti hanno convenuto di vietare nelle loro reti di comunicazione l’uso di apparecchiature 5G fornite da “fornitori non attendibili”. Nient’altro da dire, se non che è una chiara vittoria per gli Stati Uniti che stanno cercando di espellere la Cina e Huawei dalle telecomunicazioni in Europa, sferrando peraltro un duro colpo ai rapporti eccellenti che negli ultimi anni si sono sviluppati tra Belgrado e Pechino.

La normalizzazione fuori tema

“Per gli Stati Uniti è importante dimostrare di essere in grado di influire in aree difficili, ancora di più in un periodo in cui si accusa Washington di essere in fase di ritiro e di aver perso credibilità”, afferma Andrew Spannaus, giornalista americano, analista politico e autore del libro L’America post globale. Trump, il coronavirus e il futuro, uscito il 17 settembre.

A conferma di quanto sostiene Spannaus, per posizionare Serbia e Kosovo nel novero dei suoi alleati Trump ha adottato un approccio diverso dal solito. Per esempio orientando le relazioni dei due paesi nei confronti degli attori del Medio Oriente attraverso aiuti economici e pratici.

Non a caso, l’ultimo controverso punto dell’accordo di cui parlavamo prima, quello che appariva diversamente nei documenti firmati rispettivamente da Aleksandar Vučić e Avdullah Hoti, riguarda Israele. Nella versione firmata da Hoti viene dichiarato che Kosovo e Israele accetteranno di riconoscersi reciprocamente. Mentre la versione serba prevede che Belgrado aprirà un ufficio commerciale e un ufficio del ministero di Stato a Gerusalemme entro il 20 settembre 2020; sempre a Gerusalemme dovrà spostare la sua ambasciata entro 1 luglio 2021.

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Questa improvvisa apparizione di Israele, che in teoria non ha avuto alcun coinvolgimento nella disputa Serbia e Kosovo, potrebbe essere spiegata come trovata elettorale utilizzabile dall’amministrazione Trump per attirare alcuni elettori indecisi.

D’altra parte, Spannaus pensa che da solo l’accordo tra Serbia e Kosovo non offra grandi vantaggi politici nella campagna elettorale, perché gli elettori americani sono generalmente focalizzati sui temi interni e che hanno a che fare con il quotidiano. Però, se lo si inserisce in un elenco di iniziative diplomatiche può aiutare, senza dubbio, a creare una narrazione di successi internazionali attribuibili a Trump.

In ogni caso, l’importanza della presenza degli Stati Uniti nei Balcani è più forte che mai. Questo accordo forse non farà molti danni ai due stati che lo hanno firmato, ma le sue conseguenze si potrebbero sentire sicuramente. Più in Medio Oriente che nei Balcani.


Profilo dell'autore

Tatjana Đorđević Simic

Tatjana Đorđević Simic
Corrispondente dall'Italia per vari media della Serbia degli altri paesi dell'ex Jugoslavia, vive in Italia dal 2006 e da allora ha collaborato con molte riviste di geopolitica italiane e internazionali. Attualmente scrive per Al Jazeera Balkans e per la versione in serbo della BBC. È membro dell'International Federation of Journalist e dal marzo 2020 è il Consigliere Delegato dell'Associazione Stampa Estera Milano

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