Da quasi 58 anni la famiglia Gnassingbé controlla la politica e l’economia del Togo. Una dittatura dinastica brutale e dimenticata, che attanaglia i suoi otto milioni di abitanti e impedisce ogni forma di protesta. Eppure c’è chi resiste. Articolo di Riccardo Bottazzo, foto via VOA/Kayi Lawson
Cinquantasette anni ininterrotti di dittatura è una cifra da primato mondiale. Più della Corea di Kim II Sung, il leader rimasto ininterrottamente al potere per 46 anni. Più di Mu’ammar Gheddafi, alla guida della Libia per 42 anni. Più dello scià di Persia, Reza Palhavi, in carica per 38 anni. E, per restare in Europa, più dell’albanese Enver Hoxha, 40 anni, e di Francisco Franco ed António de Oliveira Salazar, pari merito con “soli” 36 anni di malefatte all’attivo. I cinquantasette anni – non ancora conclusi, peraltro – del Togo, però, non li batte ancora nessuno nella storia moderna. Pure se, a onor del vero, non stiamo parlando di un solo dittatore, ma di un’intera famiglia di dittatori e faccendieri: la famiglia Gnassingbé, che, a partire dal colpo di Stato militare del 13 gennaio del 1963, fa il bello e il cattivo tempo nel piccolo Stato africano.
Un colpo di Stato da manuale, quello compiuto da un gruppo piccolo di veterani dell’esercito francese, cinquantasette anni or sono. Un gruppo piccolo, poco più di seicento uomini, ma bene armato e, soprattutto, che godeva dell’appoggio politico e militare della Francia. I militari rovesciarono il governo in carica a suon di mitragliate e assassinarono il neo eletto presidente Sylvanus Olympio che aveva portato il Paese all’indipendenza. Eyadéma Gnassingbé si vantò sino al suo ultimo giorno di essere stato lui, di propria mano, a esplodere il colpo decisivo verso la testa del rivale Olympio ammanettato.
Scriviamo “da manuale” perché questo compiuto in Togo, fu il primo di quella lunga serie di colpi di Stato militari – c’è bisogno di sottolineare che furono tutti funzionali agli interessi delle grandi multinazionali estrattiviste europee? – che posero fine al cammino di indipendenza e di autonomia dei giovani Stati africani, annegando nel sangue figure mai sufficientemente ricordate come il burkinabè Thomas Sankara.
Da allora, quanto accade in quel piccolo Paese africano che si affaccia su un Golfo di Guinea dove nuota più la plastica che il pesce – e quel poco pesce che ancora rimane se lo accaparrano tutto le multinazionali straniere della pesca – lo possiamo leggere nei puntuali rapporti di associazioni come Amnesty International. “Uso eccessivo della forza, tortura, arresti e detenzioni arbitrari, impunità…”, cominciava così il resoconto del 2016 di Amnesty sul Togo.
La morte di Eyadéma Gnassingbé nel 2005 non ha cambiato le carte in tavola e il suo posto di “presidentissimo” è stato subito coperto dal figlio, Faure Gnassingbé, proprio come se il Togo fosse un monarchia.
Il Togo che resiste
Ma il Togo è anche opposizione. È anche gente che non china la testa e che non ha paura di scendere in piazza per chiedere diritti e partecipazione. In una sola parola, per chiedere libertà. Richieste che fanno paura al regime, che risponde pari pari come il sopracitato rapporto di Amnesty: “Uso eccessivo della forza, tortura, arresti e detenzioni arbitrari, impunità…” Ed aggiungiamo alla lista anche: elezioni truccate. Alle ultime consultazioni, il 22 febbraio scorso, i partiti di opposizione hanno denunciato decine di casi di brogli e la contraffazione di migliaia di schede. Una contestazione che ha avuto il pieno sostegno dei – pochi – osservatori internazionali ammessi dal regime ma che non ha impedito al tribunale elettorale di benedire, in fretta e furia, l’ennesima vittoria di Faure Gnassingbé.
Le proteste di piazza che si sono accese in tutto il Togo, e che stanno continuando anche in questi giorni, hanno avuto come sola risposta quella militare che ha culminato nell’arresto di centinaia di attiviste ed attivisti. Su tutte ricordiamo il leader dell’opposizione, Brigitte Adjamagbo Johnson e Gerard Djossou, tutt’ora in carcere. Due figure carismatiche in Togo, perché attivamente impegnati nella difesa dei diritti umani e nella promozione sociale. Arresti assolutamente illegali come ci conferma monsignor Philippe Fanoko Kpodzro, vescovo emerito della capitale Lomé, che nonostante i suoi novant’anni compiuti ha deciso di schierarsi a fianco dell’opposizione.
“Mi sento come il pastore che lotta contro i lupi che vengono a mangiare le pecore”, ha dichiarato a Nigrizia il prelato. “Non posso accettare di vedere il popolo togolese oppresso da una dittatura priva di cuore. È per questo che ho voluto portare soccorso all’opposizione perché potesse vincere e occuparsi del bene comune. E abbiamo vinto. Ma il regime con i suoi soldi ha corrotto tutti, compresa la Francia!”
Già, la Francia. Quanto accade in Togo è anche un prodotto della cattiva coscienza della Francia e delle aziende francesi (si veda l’affaire Bolloré). E con la Francia, di tutta l’Unione Europea.
Ed è per questo che monsignor Philippe Fanoko Kpodzro ha lanciato un appello all’Europa: “Vorrei che i paesi europei comprendessero il loro ruolo di paesi cristiani: devono aiutare i Paesi poveri a svilupparsi e non invece dedicarsi a saccheggiarne le ricchezze. Che cessino quei comportamenti e che permettano agli africani di affermarsi da soli e di prendere la loro causa in mano perché ne sono capaci”.
Il Togo non è lontano da casa nostra. Lo si raggiunge in poche ore di volo. Quello che è ancora lontano è la nostra capacità di europei di leggere in quanto affligge alcuni Paesi africani – povertà, guerre, dittature, devastazioni ambientali e, non ultimo, le migrazioni – un risultato delle nostre politiche capitaliste. Quella che si combatte in Togo, è una battaglia che dobbiamo combattere prima di tutto a casa nostra, per far vincere l’Europa che vogliamo: quella dei diritti umani.
Profilo dell'autore
-
Giornalista professionista e veneziano doc. Quando non sono in giro per il mondo, mi trovate nella mia laguna a denunciare le sconsiderate politiche di “sviluppo” che la stanno trasformando in un braccio di mare aperto. Mi occupo soprattutto di battaglie per l’ambiente inteso come bene comune e di movimenti dal basso (che poi sono la stessa cosa). Ho lavorato nei Quotidiani dell’Espresso (Nuova Venezia e, in particolare, il Mattino di Padova). Ho fatto parte della redazione della rivista Carta e sono stato responsabile del supplemento Veneto del quotidiano Terra. Ho all’attivo alcuni libri come “Liberalaparola”, “Buongiorno Bosnia”, “Il porto dei destini sospesi”, “Caccia sporca”, “Il parco che verrà”. Ho anche curato e pubblicato alcuni ebook con reportage dal Brasile pre mondiale, dall’Iraq, dall’Algeria e dalla Tunisia dopo le rivoluzioni di Primavera, e dal Chiapas zapatista, dove ho accompagnato le brigate mediche e un bel po’ di carovane di Ya Basta. Ho anche pubblicato racconti e reportage in vari libri curati da altri come, ricordo solo, gli annuari della Fondazione Pace di Venezia, il Mio Mare e Ripartire di FrontiereNews.
Sono direttore di EcoMagazine, sito che si occupa di conflitti ambientali, e collaboro con Melting Pot, FrontiereNews, Global Project, Today, Desinformemonos, Young, Q Code Mag, il Manifesto e lo Straniero. Non riesco a stare fermo e ho sempre in progetto lunghi viaggi. Ho partecipato al Silk Road Race da Milano a Dushanbe, scrivendo reportage lungo la Via della seta e raccogliendo racconti e fotografia in un volume.
Non ho dimenticato la formazione scientifica che ho alle spalle e, quando ho tempo, vado a caccia di supposti fantasmi, case infestate o altri "mysteri" assieme agli amici del Cicap, con il quale collaboro per siti e riviste.
Dello stesso autore
- Centro e Sud America28 Febbraio 2021Perché si parla di genocidio del popolo guaraní
- Americhe31 Gennaio 2021Gli zapatisti sbarcano in Europa: cosa dobbiamo aspettarci
- Europa22 Novembre 2020Kosovo, la fine di Thaçi detto il Serpente
- Italia27 Luglio 2020Com’è cambiata Ferrara dopo un anno di Lega