Se gli uomini haitiani in Repubblica Dominicana vengono sfruttati dalle grandi multinazionali dello zucchero, la situazione delle donne è ancora più dura. Discriminate, senza reddito fisso, molte di loro instaurano “rapporti di convenienza” più o meno espliciti con gli uomini della comunità e con i turisti internazionali in vacanza sull’Isola, esponendo sé stesse e i loro figli al rischio di gravi violenze fisiche e psicologiche. Nel nuovo libro dell’antropologo Raúl Zecca Castel, illustrato da Magda Castel, le ‘mujeres’ raccontano le proprie vite e i propri sogni.
I bateyes sono comunità rurali di lavoratori impegnati nella raccolta della canna da zucchero nella Repubblica Dominicana. Il sistema dei bateyes fu formalmente istituito dal dittatore Rafel Trujillo all’inizio degli anni ’30 per “ospitare” i lavoratori migranti haitiani la cui manodopera a buon mercato veniva sfruttata durante la stagione del raccolto. Nel corso del tempo i lavoratori hanno iniziato a portare le proprie famiglie e a diventare stanziali nei bateyes. Ancora oggi gli haitiani finiscono nei bateyes nel tentativo di fuggire dal paese più povero e sventurato del continente americano per raggiungere l’altra parte di Hispaniola, la Repubblica Dominicana. Quella che dovrebbe rappresentare una sorta di terra promessa ben presto si trasforma in un inferno, che di notte li porta a dormire in baracche spesso prive di acqua corrente, energia elettrica e servizi igienici per poi riversarsi, di giorno, nelle piantagioni, dove si dedicano a uno dei lavori più duri e pericolosi che si conoscano.
Dei bateyes in Italia si è occupato ampiamente (anche su Frontiere News) l’antropologo Raúl Zecca Castel, autore del volume Come schiavi in libertà. Vita e lavoro dei tagliatori di canna da zucchero in Repubblica Dominicana (Edizioni Arcoiris, 2015). Cinque anni dopo, Zecca Castel torna a scrivere dei bateyes a attraverso i racconti e le testimonianze delle donne che li vivono. Attraverso Mujeres. Frammenti di vita dal cuore dei Caraibi (Edizioni Arcoiris, 2020) Zecca Castel ci fa conoscere le storie di Célestine, Flor, Yvette, Anabel, Nora, Ariel e Lilliane, sette donne del batey di Ciguapa che sopravvivono tra razzismo istituzionalizzato, estrema povertà e, per alcune di loro, la prostituzione come via per sopravvivere e far crescere i propri figli.
L’autore ci tiene a precisare, nell’introduzione, che l’obiettivo del volume non è “occuparsi” di queste donne ma renderle a tutti gli effetti le vere autrici, e per questo definisce il progetto un’auto-etnografia. Una scelta decisamente vincente se l’obiettivo è quello di restituire, con delicatezza e tatto, delle vicende umane così dure e intricate che di certo non meritano il nostro moralismo né, tantomeno, uno sguardo esterno approssimativo e di compatimento.
“Ho trascorso circa sei mesi nella comunità“, spiega Zecca Castel, “un tempo lunghissimo ma necessario per entrare in confidenza con le persone che la abitano, soprattutto quando si vuole arrivare a una comprensione profonda delle dinamiche sociali più sotterranee. Non è stato facile, ovviamente: sono straniero, bianco e soprattutto uomo, quindi credevo di avere precluse determinate tematiche, come quelle più intime, che invece si sono rivelate il nocciolo della mia ricerca. È stato un lavoro lungo, fatto più che di interviste, di momenti di convivialità e partecipazione alla quotidianità delle donne. Semplicemente trascorrevo molto tempo, o meglio tutto il tempo, con loro, accompagnandole a lavare i panni al fiume, chiacchierando con loro mentre preparavano il pranzo, aiutandole ad accudire i bambini, e così via. Di fatto, stabilendo rapporti di fiducia reciproca e aprendo loro anche il mio privato, così da cercare un livello di parità nel confronto, un rapporto di amicizia insomma. Alcune sono arrivate a confessarmi che mai nessun uomo le aveva ascoltate come ho fatto io, che nessuno si era mai interessato a loro, alle loro vite, che non credevano di avere nulla di importante da dire, e che grazie al mio ascolto hanno anche capito molte cose di loro stesse. Per me è stato davvero gratificante. Credo che per alcune sia stato qualcosa di terapeutico e persino catartico”.
Donne, uomini e il ruolo del corpo
Del resto ogni persona ha un suo vissuto diverso, una specifica sensibilità, un carattere profondo che ne impedisce una tipizzazione. Ad esempio per Liliane la povertà è il non avere mai avuto una bambola tutta per sé (“Dovevo aspettare che qualcuno buttasse la sua e litigare con altre bambine per averne una tutta rotta, senza capelli”) e la dignità è qualcosa da conquistare con la forza, anche a costo di minacciare con un machete il padrone che si rifiuta di pagare. Mentre per Nora la vita e l’amore sono una questione di fortuna (“Ho quattro figli. Ognuno di loro ha un padre diverso, perché sai che qui gli uomini non si accontentano di una sola donna, e io non sono mai stata fortunata con gli uomini. In verità non sono mai stata fortunata in niente e la mia vita è sempre stata molto dura”).
Di tutto il materiale raccolto Zecca Castel ha fatto una selezione, prediligendo le donne il cui auto-racconto ha raggiunto livelli di introspezione più profondi. “Così sono rimaste sette donne, e ciascuna ha dato il suo contributo in modo diverso. Ciascuna illumina qualche aspetto della vita nella comunità, attraversando i dieci temi che sono emersi come significativi per le loro traiettorie di vita e che infine costituiscono i dieci capitoli del libro”.
Le dieci tematiche (e quindi gli altrettanti capitoli) sono l’infanzia, il razzismo, i figli, il lavoro, il debito, la prostituzione, l’amore, la bachata, la stregoneria e il futuro.
Trasversalmente emerge un racconto collettivo di soprusi e ingiustizia, quasi sempre causati dagli uomini. Spesso abbandonate dai partner e costrette a crescere da sole i figli, in debito con le botteghe per comprare il cibo, nella loro vita riecheggia il mito dei soldi facili attraverso il prestare attenzioni agli uomini in cambio di favori. “Ma non barattano nulla, non scambiano il dominio maschile con la sopravvivenza: la sfruttano con cognizione di causa”, spiega Zecca Castel. “Sono consapevoli di una realtà che è fondata su ineguaglianze strutturali di tipo economico, perché riconoscono che la fonte dei problemi risiede nella mancanza di lavoro e di reddito femminile, cosa che le obbliga a dipendere economicamente dagli uomini per la sopravvivenza”.
“Signora in strada, puttana a letto e serva in casa”
Anzi, in fin dei conti “sanno che il loro corpo è il loro capitale e per molte è una risorsa che equivale ad avere un pezzo di terra da coltivare o su cui allevare qualche animale. In questo senso, per alcune la visione dei rapporti di genere, per quanto evidentemente asimmetrica, può essere capovolta nell’intendimento che gli uomini dipendono dal corpo femminile, da quella terra fertile, tanto per la riproduzione sociale quanto per il godimento sessuale. Sono dinamiche sottili, che richiederebbero molto più spazio per essere approfondite e analizzate, ma sono dinamiche di cui va tenuto conto, perché rappresentano valvole di sfogo, rivendicazioni di autonomia e libertà che offrono alle donne l’orgoglio e la forza di cui hanno bisogno per andare avanti”.
Secondo il COIN, un centro di ricerca indipendente dominicano citato nel libro, se si mette insieme il numero delle donne che esercitano la prostituzione in Repubblica Dominicana in modo esclusivo con quelle che sperimentano anche occasionalmente prestazioni sessuali di vario genere, si raggiungerebbero le 500mila unità, poco meno del 20% di tutte le donne del Paese.
“Sono le donne più povere e afrodiscendenti a prostituirsi, perché sono l’ultimo scalino della società dominicana, discriminate tre volte, per essere donne, per essere povere e per essere nere”, spiega Zecca Castel. “Ciascuno di questi fattori non può essere considerato indipendentemente dagli altri, è una catena che lega i destini e le vite di migliaia di persone in Repubblica Dominicana, un paese che non ha ancora fatto i conti con il suo passato coloniale, con il razzismo strutturale, il maschilismo dominante, e il classismo esasperato“.
Come dice Anabel ad un certo punto del libro, “la prostituzione è come il diavolo: ti aiuta quando hai bisogno, ma poi ti chiede il conto, e non hai scampo, devi pagarlo. È come una maledizione e finisce che perdi sempre”. Un “diavolo” che spesso ha il volto del turismo sessuale internazionale. “Le leggi ci sono, ma solo sulla carta. Il denaro ha più autorevolezza, e il turismo è la principale entrata economica del paese. Purtroppo il lavoro da fare in questo senso è molto, di natura culturale ma anche istituzionale, perché la prostituzione fa comodo a tutti e in pochi vogliono davvero contrastarla”.
Abbiamo chiesto a Raúl Zecca Castel se ha avuto modo di confrontarsi anche con gli uomini dei bateyes sulle considerazioni raccolte nel libro. “Paradossalmente è risultato molto difficile. La mentalità machista e la necessità di dimostrare continuamente la propria virilità costituiva un forte limite a confidenze sincere sui rapporti di genere. Molti credevano fossi omosessuale per il semplice fatto che mi interessavo a cosa pensassero le donne o, più comunemente, credevano fossi interessato a sposarne una per portarmela in Italia. Non riuscivano a capire cosa stessi facendo, quale ragione mi portasse a passare così tanto tempo con le donne, perché alle donne non riconoscevano alcuna qualità che non fosse quella dei mestieri domestici, della cura dei figli e della sessualità. C’è un detto riguardo alla donna ideale, in Repubblica Dominicana, che restituisce alla perfezione la cultura maschilista dominante: ‘signora in strada, puttana a letto e serva in casa'”.
Bachata, il gospel delle mujeres
Un capitolo è sulla bachata, un genere musicale che scandisce le giornate e allevia le sofferenze delle abitanti del batey. Racconta Anabel che “la bachata per noi è qualcosa che ci aiuta a soffrire per le delusioni d’amore e per i tradimenti, perché sai che gli uomini sono tutti dei traditori bugiardi!”
Il ruolo della bachata per le mujeres ricorda quello dei canti gospel nelle piantagioni di cotone nordamericane. Eppure, ragioniamo leggendo il libro, se nel caso degli spirituals la musica fungeva come grido d’aiuto verso Dio per le oppressioni subite, la bachata sembra essere utilizzata principalmente come una sorta di manuale contro le delusioni d’amore e più in generale come strumento “didattico” sulle relazioni interpersonali. E in effetti Deborah Pacini Hernandez, un’antropologa che ha dedicato ampi studi alla bachata prima che diventasse un genere di fama internazionale la associa proprio al blues, per quello spirito triste e nostalgico, per le radici africane, per la capacità di raccontare un’intera classe socio-culturale.
“Si potrebbe scrivere un intero libro sulla funzione e il ruolo sociale della bachata nei bateyes – spiega Zecca Castel – perché in effetti durante i mesi di ricerca ho colto la rilevanza che questo genere musicale ha per la comunità tutta, e non solo in termini di intrattenimento o come distrazione da una realtà difficile da cui si vorrebbe evadere attraverso l’immaginario musicale, ma proprio in termini pedagogici, educativi e formativi. I bateyes sono contesti istituzionalmente deboli, dove i servizi di base sono spesso assenti, e tra questi anche le scuole, e quando ci sono offrono un livello di qualità estremamente basso. Di qui la necessità di imparare la vita altrove, e il ricorso alla musica, ma soprattutto ai testi delle canzoni, rappresenta un surrogato dal grande potenziale formativo”.
Un cambiamento possibile?
Il futuro delle abitanti e degli abitanti dei bateyes è inevitabilmente legato alla politica del Paese. Se esiste una sorta di circolo vizioso che riproduce continuamente condizioni di ingiustizia e sfruttamento che si tramandano di generazione in generazione, “una parte importante del problema riguarda la questione della cittadinanza. Gli abitanti dei bateyes sono soprattutto migranti haitiani e loro discendenti. Purtroppo una recente riforma costituzionale, fomentata dalle frange più nazionaliste e razziste del paese, ha eliminato lo ius soli come criterio per l’acquisizione della nazionalità dominicana, ma soprattutto questa riforma è stata applicata in modo retroattivo, a partire dal 1929. L’effetto è stato drammatico: oltre 200mila persone che erano nate in Repubblica Dominicana da genitori stranieri e che avevano avuto diritto alla cittadinanza dominicana, che erano dominicani a tutti gli effetti, si sono improvvisamente visti privare di questo diritto e sono diventati apolidi, dei veri e propri fantasmi, con tutte le ripercussioni negative che si possono immaginare: impossibilità di lavorare, di studiare, di partecipare alla vita civile del paese insomma”.
Un futuro oscuro, perché chi non ha documenti non ha diritti. E questo, come abbiamo visto, vale ancora di più per le donne. Viene da chiedersi, in un contesto di disinteresse e di crisi pandemica mondiale, come mantenere viva l’attenzione sui diritti delle donne nel Paese, haitiane e dominicane. Sembrerebbe un’impresa titanica, eppure non si tratta di un’isola dimenticata, ma di un polo turistico che nel 2017 ha attirato quasi cinque milioni e mezzo di visitatori, di cui oltre due milioni dagli Stati Uniti. “Preferiamo vedere il paradiso turistico, magari anche sessuale, dove trascorrere vacanze da sogno, tra bellezze tropicali e paesaggi meravigliosi, chiudendo gli occhi di fronte alla povertà che investe la maggior parte della popolazione, di fronte allo sfruttamento nelle piantagioni di canna da zucchero e di tanti altri settori economici e produttivi, di fronte a uno snodo del narcotraffico internazionale, e di fronte a molte altre criticità che caratterizzano d’altra parte molti paesi centro-latinoamericani e non solo”.
Diffondere conoscenza è quindi imprescindibile. “Con questo libro ho cercato di mettere a fuoco la condizione femminile nei bateyes, lasciando alle donne la parola affinché raccontassero le loro vite e le loro esperienze, spesso violente e traumatiche, così da offrire al lettore italiano anche uno specchio dove riflettersi e infine poter anche riflettere sulle tante similitudini che ci legano, perché in fondo, la cultura maschilista che domina i Caraibi non è così diversa da quella che domina le nostre società occidentali, anche se si esprime in forme forse più sotterranee, soprattutto attraverso violenze psicologiche ed economiche, ma anche attraverso violenze estremamente evidenti. Basti pensare ai tanti femminicidi che ogni anno siamo costretti a contare”. Una questione, quindi, di lotta globale per difendere i diritti, perché i nostri non possono prescindere da quelli degli altri. “Solo con questa consapevolezza troveremo nelle donne dei bateyes delle sorelle in cui ritrovarci per lottare e conquistare insieme un futuro dignitoso”.
Profilo dell'autore
- Responsabile e co-fondatore di Frontiere News. Scrive di minoranze e diritti umani su Middle East Eye, Espresso, Repubblica, Internazionale e altre testate nazionali e internazionali
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