Perché l’ecocidio dev’essere considerato un crimine internazionale

Un movimento crescente a livello globale chiede che la distruzione dell’ambiente venga trattata come il genocidio e i crimini contro l’umanità, e che governi e multinazionali rispondano della propria negligenza nei confronti degli ecosistemi nei quali viviamo.

Di Ilaria Cagnacci


Se negli ultimi decenni in materia di diritto penale internazionale abbiamo assistito a dei passi da gigante, lo stesso non si può dire per quanto riguarda le leggi di protezione ambientale.

Nel mondo sono sempre di più coloro che sostengono che uno dei modi più efficaci per prevenire la distruzione ambientale sia il riconoscimento dell’ecocidio come quinto crimine internazionale oltre a quelli di genocidio, crimini contro l’umanità, crimini di guerra e crimini di aggressione stabiliti dallo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale.

Il significato del termine

Il termine ecocidio – così come suggerisce la sua etimologia che deriva dal greco οikos, “casa” e dal latino occidere, “uccidere” – rimanda alla distruzione dell’ambiente. L’avvocatessa scozzese Polly Higgins, che ha dedicato gli ultimi dieci anni della sua vita a una campagna per introdurre l’ecocidio come crimine internazionale all’interno dello Statuto di Roma, ha definito l’ecocidio come “il danno diffuso, la distruzione o la perdita di ecosistemi di uno specifico territorio, sia per causa umana o per altra causa, per un’estensione tale che il pacifico godimento da parte degli abitanti di tale territorio sia stato, o sarà, compromesso”.

Il termine fu per la prima volta introdotto dal bioeticista e fisiologo vegetale Arthur William Galston durante la guerra in Vietnam, per protestare contro l’uso da parte delle truppe statunitensi del famigerato agente arancio, un defoliante costituito da due diversi erbicidi e contenente diossina, utilizzato per distruggere le coltivazioni, la vegetazione e le foreste nelle zone occupate dai vietcong e che ancora oggi continua ad avere gravissimi effetti sia sugli ecosistemi che su tutte le generazioni nate dopo la guerra.

Il reato di ecocidio

L’ecocidio oggi è un reato solo in tempi di guerra. Originariamente il reato di “grave danno ambientale” fu incluso nella bozza dello Statuto di Roma del ‘91 come quinto crimine contro la pace, ma poi fu rimosso in una fase avanzata della stesura a causa delle pressioni da parte di Paesi Bassi, Regno Unito e Stati Uniti (per approfondire le ragioni per cui questi tre paesi si opposero, si vedano rispettivamente le pagine 82-88, 97-102, 102-105 di questo documento delle Nazioni Unite). Nella versione finale, quindi, il danno ambientale non andò più a costituire un reato in sé bensì si decise di menzionarlo tra le varie disposizioni inerenti ai crimini di guerra dove vengono proibite “tecniche di modifica ambientale”, come l’agente arancio, che hanno “effetti diffusi, durevoli o gravi”.

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Nonostante a livello internazionale ad una crescente pressione da parte della società civile e dei paesi più colpiti dagli effetti del cambiamento climatico non abbia corrisposto un’azione concreta, ad oggi sono dieci i Paesi che hanno deciso di riconoscere il crimine di ecocidio nelle proprie legislazioni nazionali. Il primo di questi fu il Vietnam (1990), il cui codice penale definisce l’ecocidio come “la distruzione dell’ambiente naturale, commessa in tempo di pace o di guerra e costituisce un crimine contro l’umanità” (art. 342 del codice penale vietnamita). Molto più recentemente invece ha fatto notizia la presentazione al parlamento francese di una nuova proposta di legge contro il reato di ecocidio, tuttavia, il testo recentemente pubblicato ha sollevato forti critiche da parte della società civile che accusa il governo di aver giocato a ribasso allontanandosi notevolmente dal progetto inizialmente proposto dalla Convezione cittadina per il clima.

Per quanto riguarda l’Unione Europea, il 20 gennaio il Parlamento ha adottato un emendamento nella sua relazione annuale sui diritti umani e la democrazia nel mondo del 2019 che riconosce il concetto di ecocidio ed esorta “l’UE e gli Stati membri a promuovere il riconoscimento dell’ecocidio come crimine internazionale ai sensi dello Statuto di Roma della Corte penale internazionale (ICC)”. L’inclusione dell’ecocidio nella legislazione europea è senz’altro un passo fondamentale per il superamento dell’approccio “chi inquina paga” che non fa altro che legalizzare il danno ambientale regolamentando la quantità di inquinamento o di distruzione della natura nei limiti delle norme vigenti. Non si tratterebbe più di multare i distruttori dell’ambiente ma rendere penalmente responsabile non solo chi intenzionalmente distrugge l’ecosistema, ma anche chi, ben consapevole dei rischi delle sue azioni e delle conseguenze delle stesse, prosegue con la sua condotta criminale.

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L’ecocidio, pandemia e “progresso”

Nell’anno passato abbiamo assistito a innumerevoli esempi di ecocidio in tutto il pianeta che in queste circostanze di pandemia non ha fatto che accelerare. Il lockdown generalizzato ha infatti ridotto, se non impedito, il controllo e la resistenza delle comunità sui territori mentre l’industria estrattivista ha approfittato della situazione per espandersi e riorganizzarsi. Dagli incendi che hanno devastato l’Amazzonia alla fuoriuscita di petrolio nella regione artica della Russia, tutti questi eventi condividono la presunzione umana che una “crescita a tutti i costi” equivalga a progresso e, sempre nel nome di questo presunto progresso, governi e multinazionali si sono riservati del diritto di avvelenare fiumi e terre e di incarcerare o uccidere gli attivisti in lotta contro questo falso mito.

Il vero progresso ci sarà quando noi esseri umani riusciremo ad armonizzare la nostra presenza a quella dei cicli di vita della Terra. L’ecocidio è in primis un crimine contro la natura e l’idea che dovrebbe stare alla base del riconoscimento di questo reato, e che andrebbe a segnare un cambiamento a dir poco rivoluzionario, sarebbe quella della protezione della natura come fine a sé stessa in quanto soggetto di diritto. Sempre lì si torna, la necessità di un cambiamento di paradigma che parta dal riconoscimento del nostro legame indissolubile con la terra e l’uscita dall’omosfera: un illusorio “mondo umano” completamente separato dal vero universo, un mondo sigillato ermeticamente dentro la nostra mente dove i nostri ego possono crescere a dismisura gonfiati dalla presunzione di essere i padroni della terra.


Profilo dell'autore

Ilaria Cagnacci

Ilaria Cagnacci
Appassionata di Balcani, sono attivista per i diritti umani con Amnesty International e seguo i movimenti dal basso. Dopo essermi laureata in Relazioni Internazionali e Cooperazione allo Sviluppo a Perugia, mi sono specializzata in Democrazia e Diritti Umani nel Sud Est Europa a Sarajevo. Credo fermamente nella possibilità e nella necessità di immaginare e realizzare un sistema diverso da quello attuale che ha generato una ricchezza enorme per pochi a discapito dei molti e a danno del pianeta. Su questa linea, mi sono interessata alle lotte per il bene comune, o commons, per il potere trasformativo che queste lotte possono avere, non solo nel rimodellare la nostra relazione con la natura, ma anche all'interno delle comunità stesse innescando nuove forme alternative di cooperazione e solidarietà. Attualmente mi occupo principalmente di tematiche legate all’ambiente, ed in particolare ai conflitti ambientali nei Balcani, perché un ambiente salubre è parte integrante e fondamentale per il pieno godimento dei diritti umani. Sono convinta che tutti gli esseri viventi sulla terra debbano avere gli stessi diritti e le stesse possibilità per difenderli, per questo motivo mi definisco anche un'attivista per i diritti della natura.

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