Il viaggio di Papa Francesco è stato uno degli appuntamenti più incredibili del 2021. Nonostante le preoccupazioni per il coronavirus e una situazione di sicurezza precaria nel paese – con una base militare presa di mira da un attacco missilistico proprio due giorni prima della partenza – Francesco è riuscito dove Giovanni Paolo II e Benedetto XVI non hanno potuto: ha visitato la comunità cristiana locale, decimata dalla guerra e dalle persecuzioni; ha messo piede nella Mosul liberata da Daesh; ha incontrato l’ayatollah sciita Ali al-Sistani in una piccola stanza spoglia nella città santa di Najaf. Un “ultimo disperato appello per la giustizia e la pace”, lo hanno descritto diversi analisti come Marc Santora sul New York Times.
Dopo la sconfitta di Daesh nel 2017, le tensioni tra stato iracheno e società hanno ribollito fino a esplodere nell’ottobre 2019, quando decine di migliaia di giovani, lamentandosi di corruzione, mancanza di sicurezza economica e accusando le élite politiche di essere in debito con potenze straniere, sono scese nelle strade di Baghdad, Bassora, Nassiriya e altre città del centro e del sud del paese.
Cosa rimarrà della visita del Papa in un paese così frammentato? Lo abbiamo chiesto alla giornalista indipendente Sara Manisera, esperta di Medio Oriente e co-fondatrice del collettivo FADA. Sara è in Iraq per una serie di reportage e con lei abbiamo cercato di capire quali conseguenze può portare nel paese la visita di Francesco, avvenimento di grande importanza, seppur estremamente breve e circoscritto.
Sei stata molte volte in Iraq. Come lo hai ritrovato oggi, nel bel mezzo della Pandemia?
La Pandemia qui non sembra interessare la maggior parte dei cittadini. Nessuno indossa la mascherina. I problemi degli iracheni sono altri, a partire dalla crisi economica, a cui si aggiungono problemi cronici ereditati in questi anni. Eppure i casi di Covid-19 sono tantissimi e i numeri dei contagi continuano ad aumentare.
Per RSI, insieme ad Arianna Pagani, hai raccolto un “vox pop” sulla visita del papa dal suq di Erbil. Che cosa si aspettano le persone curdo irachene dopo questa visita?
Per RSI abbiamo raccolto storie dal suq di Erbil, sia curdi che arabi fuggiti quattro-cinque anni fa dalla piana di Ninive e che oggi vivono qua per ragioni di sicurezza. In generale abbiamo trovato una situazione di gioia. La maggior parte delle persone vede il viaggio del Papa come un momento importante per il paese che può portare la pace. È comunque la prima volta di un Papa qui, in un momento storico del paese. Voglio ricordare anche le proteste tra 2019 e il 2020 che hanno portato milioni di persone in piazza.
Ci sono state anche versioni discordanti da questo entusiasmo?
Un paio di persone ci hanno detto che a loro avviso il Papa sarebbe dovuto venire prima, quando le minoranze – e i cristiani in particolare – sono state colpite dallo Stato Islamico. La cosa curiosa che voglio condividere è che la maggior parte degli iracheni ci ha detto che il Papa sarebbe dovuto rimanere di più. Ci sono sui social media dei meme in cui si dice che se Francesco fosse rimasto un mese, tante cose sarebbero cambiate. Perché per la visita del Papa le autorità hanno pulito le strade e messo a posto luci e marciapiedi. Servizi che il governo non fa da dieci anni, soprattutto in aree più remote come Mosul o Ur, visitate dal Papa. Per cui, a prescindere, il viaggio è stato accolto in maniera molto positiva.
La visita del Papa ha una valenza simbolica incredibile, c’è da capire cosa rimarrà oltre al simbolo. Nel 2015 era stato a Bangui e nonostante gli appelli internazionali la Repubblica Centrafricana è nel pieno di una crisi senza fine. E nel 2017 era stato in Myanmar, salutato da quei militari che ora tengono il paese sotto assedio. Quale può essere una prospettiva “sobria” della visita di Francesco in Iraq senza darne un valore “profetico”?
Bisogna stare attenti a non cadere nella retorica. Il Papa non ha possibilità di cambiare le sorti di un paese che vive instabilità e guerre da quarant’anni. È vero però che queste visite accendono i riflettori su paesi dimenticati o che hanno sofferto. Non penso che la visita del Papa porterà i politici iracheni a risolvere i problemi del paese, non sono così ingenua. C’è da dire che però ha restituito un momento di speranza. E lo dico senza retorica. È questo quello che si percepisce parlando con persone di diverse provenienze etniche e religiose. È anche vero che la scelta del Papa di visitare più luoghi, da nord a sud dell’Iraq ha come obiettivo quello di parlare a tutti gli iracheni e non solo alla comunità cristiana. E questo viene visto come messaggio di fraternità. Forse questa visita non cambierà niente, ma ha acceso i riflettori dei media anche su quello che avverrà dopo. Aggiungo una cosa che mi sta a cuore: le milizie continuano a farsi sentire e a intimidire le voci più libere di questo caso. E non è un caso che razzi sono stati lanciati a Erbil e la settimana prima a Baghdad. Questo dimostra che è evidente che le cose non si possono risolvere con una visita papale.
Che impressioni hai avuto nel vedere il papa a Mosul?
Sono stata a Mosul il giorno prima dell’arrivo del Papa. Avendo vissuto l’offensiva militare tra il 2016 e il 2017 – durante la riconquista della città, la cosiddetta “liberazione di Mosul” – mi è sembrato quasi un miracolo vedere la città nello stato in cui si trova. Come dicevo poco fa, il governo centrale si è attivato in una città che per decenni è stata dimenticata e marginalizzata. Per la prima volta ho visto nella città funzionari di Baghdad presenti a coordinare la visita. Ho visitato il posto dove Papa Francesco ha incontrato la popolazione di Mosul. Un luogo simbolico dove ci sono due chiese importanti, al Tahera e al Saa’a, e delle moschee. È un luogo simbolo all’interno della città vecchia di Mosul, dove l’UNESCO sta portando avanti un progetto dal titolo “Far rivivere lo spirito di Mosul”, che prevede il coinvolgimento di ingegneri, architetti e operai musulmani e cristiani per ricostruire la città vecchia. Anche in questo caso mi viene da dire che non cambierà le sorti della città, ma lascia un momento di grande speranza per i cittadini. Uno di loro, un professore musulmano che ha vissuto per tre anni sotto lo Stato Islamico, ha detto che assistere alla visita di Papa Francesco è stato uno dei giorni più felici della sua vita. Anche questo dice molto su come i cittadini hanno ricevuto questo viaggio, un viaggio di speranza per curare le ferite. È forse una cura palliativa, ma un primo tassello per curare delle ferite molto profonde che questi cittadini e questo paese stanno vivendo da decenni.
Durante l’incontro interreligioso di Ur, Francesco ha rimarcato l’importanza delle comuni radici delle religioni nate da Abramo. Tuttavia diversi analisti hanno sottolineato l’assenza di una delegazione di ebrei, seppur annunciata. Pare che il veto sia arrivato direttamente da Baghdad. Che idea ti sei fatta a riguardo?
L’incontro interreligioso di Ur è stato importante perché questa città dell’antica Mesopotamia, storicamente riconducibile alla nascita delle religioni monoteiste, è una città dimenticata dove per decenni il governo centrale di Baghdad non ha investito soldi in turismo locale, regionale e per migliorare le infrastrutture. In questo caso è stato montato un generatore per la visita papale, che è stato prontamente smontato il giorno dopo. Anche questo racconta molto la contraddizione di questo Paese. Per quanto riguarda la critica fatta da alcuni analisti sulla mancanza della comunità ebraica durante questa cerimonia, dico che è vero, ma che altresì gli ebrei erano presenti in questo territorio fino a prima degli anni ’50-’60, sono decenni che non ci vivono più. Tant’è che, per quanto molto belli dal punto di vista architettonico, a Baghdad i quartieri storici dove vivevano gli ebrei sono fatiscenti e abbandonati. Non ci vive più nessuno. E viste anche le relazioni geopolitiche con Israele, non mi stupisce che Baghdad possa aver messo un veto su questo, ma non ho fonti che mi hanno confermato questa cosa.
Una figura emersa nel panorama internazionale in questi giorni è sicuramente quella dell’ayatollah Al Sistani, che il Papa ha incontrato nella città sacra di Najaf e ha definito “una luce”. Al Sistani ha detto pubblicamente che si impegnerà per difendere i cristiani, predica un Islam più aperto di quello di Qom, è considerato uno degli intellettuali più influenti del mondo. Eppure, di fatto, secondo molti analisti tutti i governi iracheni dal 2003 a oggi – ciascuno con le proprie debolezze e nefandezze – sono state di fatto modellati proprio da lui. Che idea ti sei fatta di questo personaggio?
Al Sistani è sicuramente una figura importante all’interno del paese e che in questo viaggio apostolico ha trovato una ribalta internazionale. Negli ultimi anni, tuttavia, Al Sistani ha smesso di incontrare una serie di personaggi politici iracheni, proprio per fare un passo indietro ed essere meno coinvolto e usato da partiti ed esponenti politici. Non penso possa fare grandi cose in termini politici, spingere su un’apertura o su un’altra, come tutelare la comunità cristiana o limitare il potere delle milizie o dell’Iran. Consideriamo anche che ha novant’anni e non esce di casa da diverso tempo. Chi lo incontra, lo fa a casa sua. Da diverso tempo ha smesso di accostarsi ai diversi personaggi politici. Non credo che possa in qualche modo, oggi, svolgere un grande ruolo di miglioramento del paese in termini di relazioni internazionali o di protezione dei cristiani. L’ho trovato un incontro molto simbolico per far vedere che questo papa va a parlare con il leader maximo della comunità sciita.
Dopo la nostra chiacchierata per #viaggiadacasa, ci siamo lasciati con tanti interrogativi sul futuro dei giovani iracheni e delle proteste che li vede coinvolti. Com’è la situazione oggi?
La situazione dei giovani iracheni è drammatica. Sia per la crisi economica sia perché il paese si basa sul petrolio e non ha un’economia diversificata. È un paese che vive una situazione di corruzione endemica. Il 70% degli iracheni ha meno di 25 anni. Ho trovato una situazione forse peggiore di quella che ho trovato un anno e mezzo fa durante le proteste. L’aggravante è che le milizie stanno giocando un ruolo di forza perché stanno perdendo potere e legittimazione. Dal 2005 al 2017 non si parlava pubblicamente delle milizie, si aveva paura. L’anno scorso si è abbattuto un tabù e un velo di paura. Nell’ultimo anno è aumentata la violenza. Questo lo vediamo, per esempio, negli omicidi mirati di personaggi anche illustri. Come Husham al Hashimi, ricercatore internazionale barbaramente assassinato pochi mesi fa a Baghdad; o la nutrizionista e attivista Reham Yacoub, uccisa a Bassora; o ancora tutti gli human rights defenders uccisi o rapiti e costretti a fuggire in località segrete a nord, nel Kurdistan iracheno. Io temo che nei prossimi mesi la situazione peggiorerà perché a ottobre si andrà a votare e le milizie stanno provando a rialzare la testa con la paura. Chiudo parlando di Arshad Fakhry di cui avevamo parlato insieme: un ragazzo di trent’anni che vuole aprirsi a un altro tipo di cultura si ritrova in un buco nero in cui paramilitari rapiscono persone e non si sa più che fine fanno. Ci sono migliaia di persone detenute non si sa dove. Del resto queste milizie sono i bracci armati dei partiti politici.
C’è qualche immagine importante di questo viaggio, che non hai raccontato nei tuoi articoli, che ti porterai a casa?
Ci sono due immagini che mi porto a casa: la prima è quella di cui parlavo prima dei meme che sono circolati nei social media che invocavano il Papa a rimanere più tempo. La seconda è l’immagine di donne e uomini, musulmani e cristiani, insieme ad addobbare la città di Qaraqosh. Una bella immagine di riconciliazione, che ho visto anche a Mosul. La terza immagine l’ho vista ieri visitando la piana di Ninive e ho visto quello che c’era prima del 2014. Territori abbandonati. Dopo la liberazione dall’Isis non credo che la gestione del territorio da parte dello stato sia cambiata. Trovi ancora i segni visivi dei bombardamenti o le autobombe accartocciate. Per cui mi chiedo: cosa è cambiato dopo la liberazione? Se l’Isis tornasse troverebbe ancora territori fertili? L’ultima immagine è quella dei checkpoint. Il territorio è frammentato, da Erbil a Mosul ogni tot chilometri ci sono posti di blocco gestiti da vari eserciti. Ognuno applica la sua legge e se, per esempio, hai nome arabo nel passaporto ed entri nella parte curda sei visto male. E viceversa. Ognuno fa la sua legge nel suo pezzettino di territorio.
Il Papa ha annunciato che in agenda è segnata anche una visita in Libano. Cosa ti aspetti?
Il Libano è un paese che come l’Iraq soffre tantissimo, seppur in maniera diversa. Negli ultimi due anni è sprofondato in una crisi economica che rischia di far deflagrare il paese dei cedri in un conflitto. Alcune mie fonti mi hanno detto che anche tra i soldati vige il malumore, visto che sono pagati l’equivalente di 60 dollari al mese. Questo porta al rischio che si butta benzina su una situazione dove è facile infiammare tutto. I libanesi sono tornati in piazza bruciando, occupando, da nord a sud. C’è una responsabilità sia della politica nazionale che non ha saputo fare un nuovo governo, ma anche a livello internazionale. Il vero problema di fondo è il prestito del fondo internazionale che non viene concesso a meno che non vengano fatte riforme. Riforme portate avanti da chi? Ecco il corto circuito: a pagare non sarà la classe politica o Hezbollah, facciamo i nomi. A pagare saranno i cittadini che non potranno pagare medicine e beni di prima necessità. Non certo i libanesi ricchi che hanno il doppio o il terzo passaporto e possono pagarsi le cure in Canada o in Francia. Anche in questo caso l’annuncio del papa è simbolico, fa accendere i riflettori. Ci si augura che questo possa portare più saggezza: sia per i giornalisti, sia per la politica.
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