La vita sotto gli Assad secondo lo scrittore siriano Yassin al-Haj Saleh

Le differenze e le continuità tra le epoche di Hafez al-Assad e di suo figlio Bashar hanno svolto un ruolo cruciale nello scatenare la rivolta civile. Lo scrittore siriano Yassin al-Haj Saleh descrive alcuni aspetti della vita in Siria durante i decenni precedenti la guerra, mostrando in che modo il clan Assad strutturò e organizzò l’economia siriana per garantire la sopravvivenza del regime.

Intervista di Liam Hough (roarmag.org)*


Per quanto riguarda i periodi in cui sia Hafez al-Assad che Bashar al-Assad hanno controllato il partito Ba’ath e il suo governo in Siria, hai descritto la società siriana come afflitta da una povertà politica sistemica. Potresti dare una descrizione generale di come era la vita in Siria durante questi decenni? Come descriveresti le forme di solidarietà o di interazione tra gruppi religiosi ed etnici che esistevano nonostante la repressione e il settarismo?

Il concetto di povertà politica è legato a due dinamiche. La prima è che per decenni ai siriani sono stati negati due principi fondamentali della cittadinanza: il diritto di parlare di questioni pubbliche e il diritto di riunirsi e possibilmente creare organizzazioni sociali e politiche. Silenziati e disgregati, i siriani hanno subito un “politicidio”: il potere ha ucciso il nostro coinvolgimento politico, siamo stati ridotti da cittadini a soggetti privi di diritti, senza alcun potere.

L’altro scopo principale del concetto di povertà politica è che aiuta a fornire qualche spiegazione per la crescente povertà economica tra la grande maggioranza della società siriana nell’era assadista. La povertà economica e la povertà politica sono andate di pari passo durante quella che io chiamo la “svolta neo-sultanica”, che ha visto la Siria trasformata in uno stato ereditario privatizzato, dove la coercizione politica gioca un ruolo essenziale nell’economia, come nei sistemi feudali.

La religione è venuta allora a costituire un limite alla povertà politica, perché c’è una “opinione” che nemmeno un regime politicida può sopprimere – che sono le sacre scritture recitate dai credenti nelle loro preghiere – e un “raduno” che non può sciogliere, quello dei credenti nelle moschee e nelle chiese.

A causa della loro mancanza di legittimità, l’élite privilegiata lascia i credenti alla loro religione, addirittura patrocina le religioni, mentre schiaccia le organizzazioni politiche e sociali indipendenti. I discorsi religiosi possono svolgere una sorta di protesta, mentre le preghiere e i raduni nelle moschee o nelle chiese forniscono alle persone disgregate una comunità di fiducia.

Cosa otteniamo quando religione e politica convergono? Delle sette, delle comunità esclusive.

Così, per una società che ha vissuto questo politicidio, l’unica “politica” che le rimane è quella del settarismo. Questo senza dire nulla sul fatto che il regime ha sistematicamente discriminato i siriani su base settaria. Il settarismo era l’elefante nella stanza che tutti conoscevano, ma che nessuno era autorizzato a menzionare. Se lo fai, sei settario tu stesso, minando l'”unità nazionale”.

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Eppure, molti siriani hanno cercato di superare queste dinamiche, e la rivoluzione riguardava il riappropriarsi della politica e il “rovesciamento del regime”, qualcosa che avrebbe cambiato le dinamiche politiche, sociali e psicologiche in Siria e forse indebolito la presa settaria su molti. Questo è sempre stato eroico – addirittura sisifeo – mentre il motore discriminatorio, soprattutto nell’onnipresente arcipelago della sicurezza, è ancora in funzione, le sue filiali presenti in ogni città e paese, i suoi informatori innumerevoli. Questo apparato di sicurezza è il sistema nervoso del regime ed è un’istituzione “legittima” che pratica terrore e tortura come prassi. È fortemente settarizzato, avendo inglobato la maggior parte delle persone influenti della comunità alawita.

Quello che si è visto dopo la rivoluzione non è un fenomeno nuovo nella forma della settarizzazione della politica in Siria, quanto lo svelamento brutale di ciò che era sempre stato nascosto sotto la superficie.

Potresti fare una panoramica di come l’economia siriana sia stata strutturata e organizzata durante il periodo ba’athista o assadista? Quali sono le differenze e le continuità tra le epoche di Hafez e di Bashar al-Assad? Fino a che punto diresti che i fattori economici hanno giocato un ruolo nello scatenare la rivolta civile?

Penso che la gente dovrebbe distinguere chiaramente tra ba’athismo e assadismo, come facciamo noi tra comunismo e stalinismo. Nei primi giorni del governo di Hafez, il partito Ba’ath era ridotto a un corpo grande, debole e goffo, dominato dagli apparati di sicurezza. Tutto nel paese era centrato intorno al presidente, che era molto più importante dei partiti, delle ideologie, delle città, dei cittadini, della Siria e della stessa “nazione araba”, come proclamato dal partito Ba’ath. Lui era il vero dio, il culto della sua personalità era la vera religione, e i diversi rami dell’apparato di sicurezza erano i veri templi di questa religione.

L’era assadista della nostra storia può essere vista come l’emergere di una classe feroce, una nuova borghesia che ha ottenuto le sue immense ricchezze attraverso l’accumulazione primitiva, l’espropriazione per mezzo della forza bruta. Lo stato privatizzato è il motore chiave per l’accumulo di ricchezza in Siria. L’intero paese è trattato come proprietà privata dai proprietari dello stato. Il processo può essere fatto risalire ai primi giorni del primo shock petrolifero dopo la guerra del 1973, quando il denaro dei paesi del Golfo si riversò nelle casse del regime. La fase successiva è arrivata dopo l’intervento siriano in Libano nel 1976, che riguardava l’arricchimento degli ufficiali del regime tanto quanto il potere a livello regionale. All’inizio degli anni ’90 il regime allentò ulteriormente i regolamenti relativi agli investimenti e all’accumulo privato di ricchezza.

Ma fu dopo la morte di Hafez nel 2000 che la nuova borghesia divenne davvero una classe a sé stante, per prendere in prestito un termine marxista. La bandiera dell'”economia sociale di mercato” fu innalzata in una conferenza del partito Ba’ath nel 2005. Questo periodo è stato foriero di un’intensa trasformazione neoliberale, di cui hanno beneficiato i centri delle grandi città piuttosto che le città più piccole o le zone rurali. I cambiamenti strutturali che sono stati avviati in questo periodo hanno determinato che coloro che sono stati più colpiti da questa “riforma economica” erano le comunità che mancavano di canali per il potere, wasta [mediatore] – quello che chiamiamo “vitamina W” in Siria. La rivoluzione è scoppiata nelle regioni che erano colpite da una povertà crescente e non erano in grado di far sentire la loro voce.

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Vale la pena ricordare che il meccanismo dell’accumulazione primitiva ha acquisito ancora più slancio dopo il fallimento della rivoluzione. Il regime, come custode ed espressione politica di questa classe, si è coordinato per sequestrare le proprietà degli sfollati. La logica dell’espropriazione va di pari passo con quella dell’impoverimento politico.

Affermare che le sanzioni occidentali hanno peggiorato le cose per il popolo siriano è circostanziale. È la dinamica interna dell’accumulazione primitiva che è strutturalmente responsabile della distruzione impossibile della Siria dopo la rivoluzione impossibile. Già nel 2007, il 37% della popolazione era sotto la soglia di povertà, e l’11% viveva con meno di un dollaro al giorno.

Dato il potere che il regime aveva sulla società e l’atmosfera di cospirazione e settarismo che ha alimentato per decenni, sei rimasto sorpreso che tali proteste e iniziative politiche siano emerse come hanno fatto? Quali lezioni può offrire la rivoluzione siriana in termini di esperienze delle diverse generazioni e dell’imprevedibilità delle rivolte sociali? Hai sottolineato il ruolo di creare e sostenere una cultura della resistenza sia prima che dopo il 2011.

Sì, io, per esempio, non mi aspettavo le proteste, che sono rimaste pacifiche per mesi. Avendo sperimentato di prima mano la crudeltà del regime, pensai che i riflessi condizionati della paura stavano ancora paralizzando i siriani. Ma sembrava che quasi 30 anni dopo il massacro di Hamah, l’incantesimo del terrore avesse perso il suo effetto. Era la nostra generazione che aveva perso l’iniziativa politica perché eravamo stati duramente colpiti dalla caduta del comunismo nei primi anni ’90. Ma eravamo ancora lì, in qualche modo, come simboli di una lotta che era ancora da vincere.

Noi della vecchia generazione, tra cui molti ex prigionieri politici, abbiamo condiviso buone relazioni con i primi rivoluzionari del 2011, con i quali abbiamo condiviso idee e sogni simili. Guardando indietro al decennio prima della rivoluzione, penso che abbiamo mantenuto uno spirito di resistenza vivo contro ogni previsione. Eravamo solo degli attivisti e scrittori, vivevamo in un paese chiuso, sotto sorveglianza permanente, e riuscivamo a malapena a sbarcare il lunario. Eravamo completamente senza alleati – sia a livello regionale che internazionale – e affrontavamo un regime estremamente brutale.

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Tante persone della generazione più giovane erano attive in diversi modi nella rivoluzione: persone come Razan Zeitouneh, scomparsa nel dicembre 2013 per mano del gruppo criminale salafita Jaish al Islam, o Ahmad ash-Sheikh, resa martire dal regime ad Aleppo verso la fine del 2012. Non c’era un organo politico che ci riuniva, ma stavamo sviluppando di nuovo una cultura emancipatrice, uno spirito ribelle, un senso etico del dovere, un richiamo alla libertà. Tutto questo c’è ancora adesso, nonostante il tragico destino di molti dei rivoluzionari.

Quando le rivoluzioni sono vittoriose, tendono a lasciarci una tradizione solida ed esclusiva da adottare o imitare da altri gruppi rivoluzionari (la tradizione comunista era molto solida). Ma quando falliscono, ci lasciano tradizioni tenui: lezioni, ricordi, storie da raccontare ed elaborare. La tradizione tenue della rivoluzione siriana si sta già espandendo.

Partendo da questa tradizione tenue, ora è importante che noi andiamo oltre il “marzo 2011” se vogliamo mantenere vivo lo spirito di quel momento. Voglio dire che noi, rivoluzionari siriani, dovremmo liberarci da certi processi che si sono sviluppati con la rivoluzione, e riorientarci in modi che rispondano creativamente ai nostri fallimenti e alle nostre mancanze. Dobbiamo pensare a livello regionale e globale. Dobbiamo coordinarci con altri gruppi rivoluzionari della regione e organizzarci meglio.

Soprattutto, dobbiamo sviluppare una nuova critica che unifichi i nostri tre fronti di lotta: contro un regime neo-sultanico e genocida, contro le potenze di occupazione imperialiste e sub-imperialiste, e contro l’islamismo nichilista ed elitario il cui metodo di lotta è il terrore. Un compito non facile.


*Questa intervista è una traduzione della versione inglese pubblicata dal magazine ROAR, suddivisa in tre sezioni per facilitarne la lettura:

  1. La vita sotto il regime del clan Assad
  2. La rivoluzione tradita e la cecità delle sinistre occidentali
  3. Il futuro dei siriani dopo dieci anni di guerra

[Traduzione a cura di Valerio Evangelista]


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