Mostrandosi come unica alternativa alle fazioni islamiste, il regime di Assad è riuscito ad attirare il supporto di gruppi fascisti così come di movimenti di sinistra. Ai primi ha venduto la questione della lotta all’islamismo, e con i secondi ha giocato la carta del suo presunto anti-imperialismo. Lo scrittore siriano Yassin al-Haj Saleh destruttura alcuni dei preconcetti più comuni sulle dinamiche politiche e sociali che hanno portato al tradimento della rivoluzione siriana, criticando la solidarietà selettiva di certa sinistra internazionale e mostrando le radici della prospettiva eurocentrica di chi ha negato le rivendicazioni del popolo siriano.
Intervista di Liam Hough (roarmag.org)*
Nel 2013 ti sei trasferito a Ghouta, a nord-est di Damasco. Potresti parlare di come la rivoluzione stava prendendo forma sul terreno in questo periodo e in che modo hai partecipato? Naturalmente, questo periodo è oscurato dal rapimento di tua moglie, Samira al-Khalil e di altri tre – Razan Zaitouneh, Wael Hamada e Nazem Hammadi – collettivamente note come le “Quattro di Douma”. Si crede fortemente che i colpevoli siano stati il gruppo salafita Jaysh al-Islam. Cosa è successo e come questo tragico evento ha influenzato la tua visione della rivoluzione?
Quando il 3 aprile 2013 mi trasferii nella Ghouta orientale, non sapevo che quei giorni erano l’inizio di una fase molto diversa della nostra lotta. Fino a quel momento, erano soprattutto siriani contro siriani che lottavano per il cambiamento politico. Ma da luglio 2012 in poi, la lotta è passata dall’essere in gran parte limitata alla società siriana, ad un conflitto regionale lungo le linee del settarismo.
Questo è iniziato con l’intervento dell’Iran e dei suoi alleati dal Libano e dall’Iraq – con il generale iraniano Qassim Suleimani che assunse la guida della guerra del regime alla Siria ribelle – e con l’infiltrazione di molti jihadisti sunniti provenienti da tanti paesi e sostenuti dalle reti salafite nel Golfo. L’occupazione da parte di Hezbollah di al Qusayr in Siria nel maggio 2013 segnò la fine della prima fase della rivoluzione siriana.
Nella Ghouta orientale, il gruppo salafita Liwa’a al-Islam si stava radicando in una zona che era sotto assedio e pesantemente bombardata. Cinque settimane dopo l’attacco chimico del 21 agosto 2013, quel gruppo sarebbe diventato il più pomposo Jaish al-Islam. Guidato da due ex prigionieri salafiti nel carcere di Saidnaya, in quel momento riceveva denaro dai sauditi e dal Qatar e capitalizzò l’aggressione di Assad per esercitare il suo controllo sulla popolazione locale.
Per gli abitanti della Ghouta orientale era una situazione impossibile, con le truppe di Assad che li assediavano dall’esterno e con il controllo crescente degli islamisti sulle loro vite all’interno della zona. Dopo l’attacco chimico – e ancora di più dopo l’accordo chimico tra USA e Russia, che ha praticamente dato al regime la licenza di continuare a uccidere con altri mezzi – il destino della rivoluzione era effettivamente segnato. Mi ci è voluto del tempo per capire gli effetti di quell’accordo criminale e il precedente collasso della lotta nazionale in una lotta regionale e settaria. Vorrei averlo visto più chiaramente in quel momento, perché le cose si svilupparono tragicamente nelle settimane successive, e Samira fu rapita con Razan, Wael e Nazem il 9 dicembre 2013.
Jaish al-Islam era solo uno dei movimenti armati all’interno della rivoluzione siriana. Dopo il loro spostamento nella parte settentrionale del paese nell’aprile 2018, sono diventati mercenari sul libro paga della Turchia. Il duo criminale dell’accordo chimico è intervenuto militarmente più tardi: gli Stati Uniti nel settembre 2014 contro Da’esh [ISIS], e la Russia nel settembre 2015 per conto del regime. La Turchia li avrebbe seguiti un anno dopo contro il PYD, affiliato al PKK.
Per prima cosa, la mia vita non è mai stata facile, è sempre stata una vita di lotta. Avrei preferito esperienze meno crudeli. Un po’ di pace. Avrei voluto soprattutto essere risparmiato dalla scomparsa di Samira. Ma come sopravvissuto di una lotta disperata, devo continuare la nostra rivoluzione con gli strumenti che ho, o che posso padroneggiare. Non nego di provare a volte disperazione e stanchezza. Ma fanno parte della mia vita da quando avevo 20 anni.
Il regime di Assad sembra essere riuscito, alla lunga, ad evitare in qualche modo di essere inquadrato nei media occidentali e anche in alcuni media di sinistra come privo di legittimità, come hanno fatto altri governi durante la primavera araba. Nella loro versione, a grandi linee, c’erano varie fazioni radicali islamiste da una parte, e Assad dall’altra, con quest’ultimo che era l’opzione molto più appetibile per l’Occidente. Prima di parlare dell’Occidente e della sinistra, potresti dirci se il regime assadista stesso sia responsabile di assicurare questa immagine nel discorso pubblico e nel plasmare le politiche verso la Siria?
È davvero un caso che il regime di Assad sia riuscito a sembrare legittimo? Penso piuttosto che il regime stesso sia stato probabilmente abbastanza sorpreso di essere apprezzato da molte persone di sinistra così come dai fascisti in Occidente. Ha venduto a questi ultimi il discorso della lotta contro l’islamismo, e ai primi il fatto di essere presi di mira dall’imperialismo. Ed entrambi sono stati più che felici di lavorare con quello che hanno ottenuto.
I discorsi di ampi settori della sinistra e della destra occidentali sulla Siria condividono una cosa importante: sono spopolati. Per quanto riguarda i professionisti mainstream – ambasciatori, diplomatici, e non mancano giornalisti e ricercatori – sapevano molto bene quanto fosse brutale, discriminatorio e corrotto il regime, ma la loro prospettiva è centrata sullo stato, con la stabilità come massima priorità. A loro piace avere il cibo siriano, che è buono, e risparmiare molto del loro reddito, in un paese dove il costo della vita non è alto. Quindi perché preoccuparsi dei siriani? Sono convinti che il regime sia cattivo, ma molti di loro tendono a pensare che noi, siriani, non meritiamo di meglio. Certamente, dall’esperienza siriana e palestinese, tendo a pensare che condividono la mentalità dei generali e degli amministratori imperialisti dei tempi d’oro del colonialismo. Queste persone rappresentano un pericolo per la democrazia ovunque: nei nostri paesi come nei loro.
Quindi, è la struttura elitaria statalista che mette queste persone in comune con il regime – un regime che tratta i propri sudditi nello stesso modo in cui lo facevano i loro predecessori coloniali.
Il regime è il guardiano del primo mondo interno in Siria, o dei bianchi siriani. Perché le classi privilegiate dell’Occidente dovrebbero preoccuparsi se il Terzo Mondo interno, o siriani neri, vengono bombardati con armi chimiche o bombe a barile, o torturati e uccisi in prigioni di sicurezza, o massacrati qui o là?
Allo stesso modo, lo stesso atteggiamento si riflette nella volontà di questi stati occidentali di abbandonare i propri cittadini che hanno viaggiato in Siria per unirsi a Da’esh [ISIS] e sono ora prigionieri nella Guantanamo europea, poiché non li considerano degni di un giusto processo. Il problema appartiene a “laggiù”, per così dire. Quello che vediamo qui è un processo di riavvicinamento della cittadinanza all’etnia dominante. Questo è il vettore del programma populista di destra.
Ciò che il regime ha fatto con successo è stato creare le condizioni di radicalizzazione e liberare i prigionieri salafiti dalle sue prigioni come parte di un’amnistia generale all’inizio della rivoluzione. Zahran Alloush, il fondatore di Jaish al-Islam, ha trascorso solo due anni e mezzo in carcere con l’accusa di possesso di armi prima di essere rilasciato. Mia moglie, che è stata poi rapita da questo delinquente, ha passato quattro anni in prigione. Io sono stato in prigione per 16 anni. Vedete la differenza?
Gran parte della sinistra occidentale ha generalmente fallito nello sviluppare un’analisi coerente della situazione siriana e nel mobilitarsi in solidarietà – dai partiti a importanti teorici o giornalisti ai resti del Movimento contro la guerra. Parte della tua critica a questa parte della sinistra internazionale, per come la vedo io, è che vengono da una prospettiva principalmente geopolitica, rigida e occidentalocentrica. Questo non lascia spazio alla politica basata sui movimenti e a ciò che gli attori non statali potrebbero avere da dire sulla loro lotta. Potresti parlare di questa prospettiva e di quelle che secondo te sono le sue radici?
Sembra che molti esponenti della sinistra occidentale conoscano poco – e sentano ancora meno – delle realtà al di fuori del proprio paese. La loro priorità è quella di opporsi e lottare contro il potere a casa propria, il che è abbastanza legittimo, ma tendono a integrare tutte le lotte a una lotta contro l’imperialismo, nella quale non mi sembra che siano coinvolti in modo significativo.
Inoltre, tendono a pensare che l’imperialismo sia un’essenza insediata negli Stati Uniti o in Occidente e non penseranno mai alla Russia o alla Cina o all’Iran come a potenze imperialiste. Molti sono ansiosi di istruirvi su come pensare anche al vostro paese, basando le loro idee non sulla conoscenza reale ma su alcuni principi molto generali sul capitalismo e l’imperialismo, sul neoliberalismo. Invece di riconsiderare le loro idee sul mondo in seguito a grandi eventi storici come la cosiddetta “primavera araba”, la loro conoscenza sembra essere completa prima, durante e dopo questi sconvolgimenti storici. Questa è una pratica più simile al conservatorismo che alla politica rivoluzionaria o di sinistra.
La soggettività delle nostre rivoluzioni e il coinvolgimento di milioni di persone vengono quindi negate in nome di qualcosa che non ha mai cercato di incorporare le nostre esperienze nei loro grandiosi schemi. Il fatto che decine di migliaia di siriani siano stati arrestati, torturati e uccisi nei primi anni ’80 non ha insegnato nulla sulla Siria. Nemmeno lo smantellamento dei partiti di sinistra da parte di Assad senior negli anni ’80 e ’90. Anche il fatto che Bashar abbia ereditato la sua posizione da suo padre, il macellaio di palestinesi in Libano e di siriani ad Hamah e in molti altri posti, sembra irrilevante.
Cosa è rilevante? Lotte eteree che non sono costate nulla? Persone armate di arroganza e ignoranza ci trattano come dei subalterni che non possono parlare e rappresentarsi da soli. Questo anti-imperialismo è imperialista in sé, e i suoi aderenti sembrano incapaci di riflettere sulla loro condizione e su se stessi.
Quando si tratta della Siria, molti di loro si sono affidati per informazioni e analisi a personaggi come Robert Fisk, che credo sia uno dei giornalisti più immorali che si possano immaginare. Per fare solo due esempi: ha accompagnato le forze del regime quando hanno commesso il massacro di Darayya nell’estate del 2012 e ha accusato i ribelli di uccidere la loro stessa gente. Io ero a Damasco in quel periodo e contattavo la gente di Darayya. Era un puro bugiardo, che è peggio di un negazionista: era un propagandista di un regime genocida.
Prima di incastrarsi in questo modo spregevole, Fisk aveva scritto contro i giornalisti incastrati, in particolare durante la guerra in Iraq del 2003.
Più o meno nello stesso periodo del massacro di Darayya, è stato in grado di visitare i prigionieri in uno dei centri di sicurezza del regime e gli hanno riferito esattamente la stessa narrativa del regime: di essere jihadisti salafiti stranieri. Come siriano ed ex prigioniero politico, so che nella Siria di Assad è impossibile per chiunque visitare i prigionieri a meno che non sia garantito che sia un confidente del regime. E Fisk lo era.
È come se qualcuno avesse visitato Auschwitz nel 1943 o 1944 e fosse uscito parlando di una cospirazione giudeo-bolscevica dopo avere incontrato ebrei e comunisti all’interno del lager. Questa stessa persona immorale ha dato voce ad assassini come Jamil Hassan e Suhail Hassan, e mai a nessun attivista, oppositore o intellettuale siriano. In Occidente si impose come figura autorevole, e credo che sia stato più utile al regime di quanto non fosse un’intera brigata ben armata.
Potresti parlarci anche di un’altra tendenza che hai descritto come “solidarietà selettiva”? Il tempo trascorso in Europa ti ha permesso di capire meglio questo aspetto?
La mia principale esperienza con questa solidarietà selettiva è stata dopo aver lasciato la Siria. A Berlino, la moderatrice di un evento che nel titolo faceva riferimento alla mia città, Raqqa, mi chiese di darle qualche consiglio su come moderare al meglio. Non si rese conto che, in concreto, questo approccio significasse rendere me e tutta la lotta siriana ancora meno visibili. Non invitato, assistetti all’evento in cui i sostenitori del PKK davano lunghe dimostrazioni di autoelogio e autocompiacimento, senza che nessuno sollevasse l’ovvia domanda: come mai non è stato invitato un solo siriano per parlare di una questione siriana, di un’area e di una popolazione siriana, seppur ve ne fossero a migliaia in Germania e a Berlino?
Naturalmente, non fu fatta alcuna menzione della lotta siriana per la democrazia. Si aveva la sensazione che la storia della lotta progressista fosse iniziata nel 2013-14, con il coinvolgimento delle milizie curde YPG nel combattere Da’esh [ISIS]. Noi non esistevamo. L’unico curdo siriano che era lì venne a conoscenza dell’evento da me. Ci sono esempi migliori di essere subalternizzati, e da persone presumibilmente di sinistra? Inutile dire che la mia domanda – perché a un evento intitolato “Nach Raqqa…” [A Raqqa…] non erano presenti né raqqawi né siriani? – è rimasta senza risposta.
Questa esperienza frustrante è stata solo la molla che mi ha portato a sviluppare una critica del concetto stesso di solidarietà. Ho cercato di mostrare che la solidarietà è un mercato, e tende all’oligopolio, con alti ostacoli per i nuovi arrivati. È anche un rapporto di potere, e non si basa affatto sull’uguaglianza, l’amicizia e l’essere compagni. E ancora, è incentrato sulle priorità della sinistra occidentale e degli umanisti.
Recentemente, ho avuto un’esperienza infelice con l’Internazionale Progressista che mi ha disorientato. Mi hanno contattato, chiedendomi di unirmi alla loro nuova iniziativa, ma dopo che ho inviato loro una lettera, non hanno mai risposto o spiegato nulla. Questo non fa che significare per me che la Siria è ancora inavvicinabile dalla “sinistra imperialista”, quella che annette tutte le lotte nel mondo a una grande lotta contro l’imperialismo, senza fare nulla e soprattutto senza rischiare nulla.
Ora, con il mondo in crisi a causa del COVID-19 e delle questioni ambientali, mentre le vecchie dinamiche dell’imperialismo e del razzismo stanno prendendo nuove forme, c’è bisogno di una nuova solidarietà. Una solidarietà rivoluzionaria che dovrebbe mirare a cambiare il mondo, invece di accontentarsi di patrocinare gli agenti di questa o quella causa. La Siria – un paese piuttosto piccolo in cui sono presenti gli iraniani, gli americani, i russi, i turchi con i loro alleati sul campo, gli israeliani, e un regime genocida rimasto al potere – è forse il giusto punto di partenza per ripensare il mondo di oggi in crisi.
*Questa intervista è una traduzione della versione inglese pubblicata dal magazine ROAR, suddivisa in tre sezioni per facilitarne la lettura:
- La vita sotto il regime del clan Assad
- La rivoluzione tradita e la cecità delle sinistre occidentali
- Il futuro dei siriani dopo dieci anni di guerra
[Traduzione a cura di Valerio Evangelista]
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