Negli ultimi anni il fotografo Stefano Romano ha intervistato decine di famiglie rohingya rifugiate in Malesia, dove come fantasmi vivono ai margini della società, senza possibilità di accedere a istruzione e sanità pubblica.
Foto e testo di Stefano Romano
“Lasciamo che anche loro camminino sulla terra.
Su questa nostra madre terra
Cresceranno sempre di più.
Se non riusciamo a garantire loro il ritorno,
Lasciamo che si diffondano su qualsiasi riva “.
Mohammad Nurul Huda, da “Rohingyas”
“I rohingya sono una minoranza prevalentemente musulmana dello stato di Rakhine, nel Myanmar occidentale. Contano circa un milione di persone, ma le leggi approvate negli anni ’80 li hanno effettivamente privati della cittadinanza birmana. La violenza è esplosa in Myanmar il 25 agosto dopo che una fazione di militanti rohingya ha attaccato postazioni di polizia, uccidendo 12 membri delle forze di sicurezza del Myanmar. Le autorità del Myanmar, in luoghi sostenuti da gruppi di buddisti, hanno lanciato una repressione, attaccando villaggi rohingya e case in fiamme. Secondo l’UNHCR, il 28 settembre il numero di rohingya che successivamente sono fuggiti dal Myanmar per il Bangladesh ha raggiunto i 500.000”. In questo modo i rohingya venivano descritti nella sinossi introduttiva del World Press Photo alle fotografie che fecero conoscere questa tragedia al mondo. Era il 2018.
La comunità internazionale iniziava a conoscere le cifre e l’orrore di questo genocidio. Poi si sarebbe alzata una voce di protesta contro il premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi, allora a capo del paese. La si accusava di tacere davanti allo sterminio, spalleggiata al potere dall’esercito che, del genocidio, ne era l’esecutore. Suona ironico, adesso, vederla destituita con un colpo di Stato perpetuato proprio dall’esercito del Myanmar.
Va detto che già nel 2014 Shaihdul Alam, il fotografo più famoso del Bangladesh, aveva fotografato le navi abbandonate dai ronhingya sulle spiagge della Malesia. Lo stesso aveva fatto nel 2016 documentando l’arrivo dei rifugiati nel distretto di Teknaf a Cox’s Bazar, prima che venissero accolti nel campo profughi. A tal proposito si veda il suo ultimo libro, The Tide Will Turn (Vijay Prashad, 2020).
Sta di fatto che, come tutte le cose, la tragedia di questo popolo vortica impetuosa come un mulinello d’aria sulla sabbia, per poi disperdersi e svanire in poco tempo. Chi non ha voce per urlare il proprio dolore cade velocemente nel disinteresse.
Una persecuzione vecchia almeno 237 anni
Se quella dei rohingya è una tragedia che abbiamo iniziato a conoscere in anni recenti, la sua storia ha radici molto antiche. Non è vero che la persecuzione sia iniziata negli anni Ottanta, come viene riportato spesso. Già nel 1784 l’esercito birmano iniziò ad uccidere i rohingya, quando il re birmano Bodawpaya conquistò Arakan. E non solamente loro, a dimostrazione che il problema va oltre l’essere di fede islamica: tra le minoranze etniche perseguitate ci sono anche i chin, i kayah, i mon e altri ancora.
Il Myanmar è un paese misterioso e tormentato, che ha cambiato nome (da Birmania, nel 1989) e tre diversi dominanti, passando dagli inglesi ai giapponesi fino all’esercito militare. Tutto pare iniziare con le vicende di Shaha Shuja, secondo figlio dell’imperatore Mughal che dominava tutto il Bengal. A causa di tradimenti e conflitti per la successione al trono, Shah Shuja fu costretto a fuggire dal Bengal e da Chittagong raggiunse Arakan (tuttora questo itinerario è chiamato Shuja Road). Qui fu ospite del Principe musulmano di Arakan Sanda Thudamma, che fu tradito proprio dal discendente del Mughal e che per questo lo uccise. Questa ribellione provocò la reazione tremenda del re Mughal, che lo uccise a sua volta e obbligò alla schiavitù il popolo di Arakan. Fino, praticamente, ai giorni nostri.
I rohingya in Malesia
Ho conosciuto le prime famiglie rohingya quando visitai la Malesia nel 2017. Ero ospite di una famosa università del Penang, l’isola al nord della Malesia; fu molto toccante conoscere alcuni dei bambini rohingya ospiti del Penang Peace Learning Center, una struttura fondata da Kamarulzaman Askandar, professore di studi su Peace and Conflict (USM) e coordinatore regionale del Southeast Asian Conflict Studies Network (SEACSN).
Lo intervistai per capire più in profondità i vari aspetti del conflitto in Myanmar e la presenza dei rohingya in Malesia. Tra le altre cose, il professore Askandar mi spiegò che secondo lui si trattava senza ombra di dubbio di genocidio e, per questo, il problema riguardava tutti i paesi, che avrebbero dovuto “non solo essere consapevoli, ma anche agire per la risoluzione”. Sul ruolo del suo paese, in cui già allora erano presenti quasi 90mila rifugiati rohingya, Askandar mi aveva spiegato che “nonostante la Malesia non sia un firmatario della convenzione sui rifugiati, ha accolto un gran numero di rifugiati rohingya e permesso allo staff dell’UNHCR di registrarli”. Ribadì che la questione era globale, non solo della Malesia e che andava risolta direttamente in Myanmar. D’altro canto, “la Malesia dovrebbe fare qualcosa per fare pressione sul governo del Myanmar”, “per trattarli umanamente, per dare loro la vita sociale e politica che realmente richiedono e che dovrebbero avere”.
Quel giorno conobbi alcune delle famiglie dei bambini. Mi portarono e visitare le loro case. Scattai le prime fotografie e ascoltai le loro storie. Un anno dopo sono tornato nella stessa città, per viverci e lavorare, dal 2018 alla fine del 2019. Mi sono messo a cercare di nuovo quelle famiglie e ne ho conosciute molte altre in diversi regioni della Malesia: Kedah, Kelantan. Dovunque andassi, chiedevo ai miei amici dove avrei potuto trovare famiglie rohingya. Con alcune di loro è nata anche un’amicizia, sono tornato spesso a trovarle e ho portato loro ciò di cui avevano bisogno: abiti, medicine, cibo, quaderni per i bambini.
Ho avvertito come il sentimento iniziale di affetto e compassione stesse iniziando a mutare in insofferenza e ostilità. Vedere che la loro condizione non migliora li rende li rende soggetti a ostilità, come accade per tutte le minoranze profughe in giro per il mondo.
Il problema è che, come mi spiegò bene il professore Askandar, non è colpa loro se possono limitarsi a lavori illegali, nei cantieri o nei porti. Finché non viene riconosciuta loro la cittadinanza potranno solamente limitarsi a non essere arrestati, grazie alla carta UNHCR. Ma non potranno andare a scuola, acquistare una casa, ricorrere alla sanità pubblica. Gli unici aiuti arrivano dalle ONG locali. Per il resto, sono come fantasmi.
Io ho trovato alcune aree (o kampung) nel Penang o nel Kedah che ormai sono abitate quasi solamente da rohingya. Esiste un mercato tradizionale a Penang, veramente unico e ormai il solo rimasto in Malesia; lo chiamano Pasar Bisik, ovvero il mercato dei bisbigli, perché chi contratta il prezzo dei pesci all’asta, appena pescati in mare, lo fa bisbigliando il prezzo all’orecchio. Si trova nelle due rive del fiume che porta al mare verso la Thailandia. Sono chiamate kampung Kuala Muda e di fatto si trovano in due differenti regioni: da un lato Penang e dall’altro Kedah.
Sono stato da entrambi i lati. Nella parte di Penang, l’antico villaggio di pescatori con le case in legno è ormai abbandonato dai malesiani e affittato interamente alle famiglie rohingya. Gli uomini fanno i pescatori, un mestiere che le nuove generazioni malesi non vogliono più svolgere. Le donne non parlano quasi per niente il malese, perciò sono confinate in casa oppure chiedono l’elemosina nei mercati o vendono snack e altre piccole cose deambulando.
Nel febbraio 2020 questo percorso alla scoperta dei rohingya mi ha portato nel più grande campo profughi del mondo. Si trova a Cox’s Bazar, Chittagong, in Bangladesh. È stata una delle esperienze più forti e indimenticabili della mia vita. Come mi ha detto un mio amico italiano che lavora in un health post all’interno, e grazie al quale ho ottenuto i permessi per accederdervi, si tratta di un vero e proprio “inferno sulla terra”. In Bangladesh le cose non vanno meglio della Malesia; il governo sta attuando dei ri-locamenti coatti dei profughi in un’isola sperduta, senza dare il permesso alle ONG internazionali di controllare o semplicemente accedervi.
E la popolazione locale, come in Malesia, ha superato il limite di sopportazione verso i rohingya. Il loro arrivo ha devastato l’habitat naturale e la loro quotidianità, anche a causa dell’arrivo di ONG da tutto il mondo in un territorio poverissimo e rurale. La compassione iniziale si è tramutata in odio.
Non esiste altra possibilità che risolvere il problema a monte. Del resto, tenendo conto del terribile peggioramento della situazione politica del Myanmar, credo che i rohingya dovranno ancora penare a lungo. Persi in un limbo, con l’identità negata in ogni luogo, combattendo interiormente per salvare la propria cultura e storia.
Tutte le fotografie di questo articolo sono stata scattate da Stefano Romano in Malesia, nelle regioni di Penang, Kedah e Kelantan tra il 2017 e il 2019. Per approfondire il suo lavoro: https://soccamacha.blogspot.com
Profilo dell'autore
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Nato a Roma nel 1974, si è laureato nel 2001 in Psicologia ed estetica alla Facoltà di Lettere e Filosofia della Sapienza di Roma. Nel 2010 ha iniziato a fotografare le comunità migranti di Roma e dal 2013 tiene il corso di “Fotografia come mediazione culturale”. Ha insegnato fotografia alla Universiti Sains Malaysia, in Penang, nel 2018\2019.
Ha pubblicato: “Kampungku Indonesia”, “Sweet Light” (Mizan, 2010\2018), ristampato in inglese in Bangladesh (Agamee Prakshani, 2020), “Saying it from the heart #USM style” (Penerbit USM, 2019), “My Malaysian Tales” e “My Bangladesh Tales” (2020\ 21, Lulu.com). Scrive sul blog soccamacha.blogspot.com
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