Vladimir (nome di fantasia) è già in piazza, mi aspetta fumando una Marlboro rossa mentre lo raggiungo con colpevole ritardo. Ha circa quarant’anni, un viso europeo dove svettano degli occhi celesti leggermente a mandorla, i capelli sono grigi e tendenti al lungo. Ha un orecchino ad anello come il mio sul lobo sinistro, mi stringe la mano e gli rispondo col pugno come succede da ormai due anni: siamo ancora nell’era Covid19.
“Giusto, c’è ancora il Covid” esclama accompagnando le parole con una risata simile ad un latrato.
Vladimir è ucraino, è scappato a conflitto iniziato, ha attraversato la frontiera con i suoi tre figli. La legge marziale imporrebbe che gli uomini dai diciotto ai sessantanni rimangano in patria a combattere, ma lui ha una famiglia numerosa, e questo che gli ha permesso di attraversare il confine. “Chi ha tre figli lo lasciano passare anche se adesso la normativa è più stringente. La guerra si è fatta più cruenta e gli uomini vengono bloccati anche se hanno numerosi figli. Forse fanno bene, forse no. Io sono riuscito a passare”, mi spiega quasi abbassando gli occhi, come se si sentisse in colpa per i suoi amici rimasti in Ucraina ad imbracciare fucili e lanciare granate.
Quando incontro Vladimir per aiutarlo per alcune situazioni legate ai documenti, è l’alba del quarantesimo giorno di guerra con i raggi mortiferi del conflitto che spalancano gli occhi degli europei in maniera netta, decisa, senza preamboli: non c’è lente che possa filtrare la violenza della guerra, sono i giorni della scoperta delle fosse comuni. Sono i giorni in cui i teenager si trovano a vedere per la prima volta immagini che in Europa mai pensavano di vedere, sono i giorni in cui la mia generazione vede squarciata definitivamente l’illusione del continente europeo in pace, sono gli anni in cui i nostri nonni ricordano gli spettri del secondo conflitto mondiale.
“È iniziata così, nel ’39. È iniziata così”, mi ripete ogni volta mio nonno quando lo sento al telefono.
Vladimir è scappato il diciannovesimo giorno di guerra – i bombardamenti su Kyiv erano già iniziati – ed è arrivato al confine polacco un paio di giorni dopo. Poi Austria Germania ed infine Italia.
“Ho attraversato il confine polacco insieme alla mia famiglia. La sensazione che ho avuto quando ho varcato il confine è stata, da un lato, il sollievo di arrivare in territorio di pace; dall’altro, un macigno dentro l’anima per aver abbandonato la mia città. Io due mesi fa vivevo una vita tranquilla, oggi non mi rimane più niente se non la cenere. Non so quanto siamo sicuri qua. O meglio: adesso lo siamo ma non so per quanto tempo. Putin non si fermerà, andrà avanti. L’Europa non è sicura e niente sarà più come prima”.
Mentre attendiamo la fila per regolamentare alcuni documenti, prende il più piccolo dei bambini e lo strapazza. Il figlio ha tre anni, un viso pestifero e gli occhi celesti come quelli del padre. Sembra vivere tutto come un gioco. La sera prima Vladimir gli aveva fatto il crestino che chiedeva da mesi. Ha voluto accontentarlo.
“Mio figlio i rumori delle bombe li ha sentiti, abbiamo cercato di fargli vivere tutto questo come una specie di gioco di ruolo, ho preso spunto da quel film proprio italiano [La vita è bella, ndr] in cui il protagonista nei campi di concentramento fa vivere quella disgrazia come un gioco. La tensione mia e di mia moglie c’ha traditi, lui è combattuto se crederci oppure no. La notte però si agita, è irrequieto: i segni della guerra sono ustioni tanto per i bambini quanto lo è per gli adulti. Anzi, per loro lo è ancora di più”.
La figlia più grande ha invece gli occhi scuri della madre, quest’ultima ha occhiaie come calamari neri sotto gli occhi e ripete di continuo “grazie” ad ogni movimento. È scossa, si vede platealmente.
La figlia invece sembra completamente persa in un’altra dimensione, è totalmente assente: sguardo basso e perso, la madre prova a spulciarle qualche parola che sono solo risposte secche “si, no” col capo: sentire il timbro della sua voce è impossibile.
“Sono preoccupato per mia figlia, immaginati a diciassette anni se all’improvviso la città dove vivi viene bombardata e rasa al suolo. Niente scuola, amici dispersi, ti ritrovi da un giorno all’altro in un’altra nazione: penso avesse anche il fidanzato. Più grande. Quel fidanzato oggi non lo vede e non lo sente: è al fronte a farsi ammazzare dai russi. Mia figlia non ha più notizie di alcuni ragazzi della sua comitiva, alcune amiche sono irraggiungibili”.
Quando mi allontano per prendere un caffè per me e per Vladimir al ritorno lo vedo profondamente inquieto. Il palmo della mano non controlla movimenti dettati dall’ansia: fuma una sigaretta dietro l’altra, ingolla Marlboro rosse come fossero caramelle.
“Il mio telefono ha un’applicazione che mi informa quando suonano le sirene per i bombardamenti, sta suonando di continuo. Io sono di Kyiv, ma lavoro a Bucha: faccio il doppio lavoro lì, lavoro nel campo dell’informatica. Anzi, lavoravo: prima ero un informatico, ora sono un profugo. Uscivo alle sei di mattina e tornavo alle sei di sera: vivevo più a Bucha che a Kyiv. Sono distanti un’ora di macchina, una sessantina di chilometri. Il mio ufficio non esiste più, i miei colleghi sono per la maggior parte dispersi e probabilmente infilati in qualche fossa comune ad essere mangiati dai vermi nell’anonimato. Neanche una tomba su cui piangere: ammassati come i vermi che si utilizzano per la pesca. Neanche agli animali viene riservato un trattamento del genere. Non potrò mai perdonare i russi per quanto ci stanno facendo: io e mia moglie avevamo amicizie russe da più di vent’anni, le abbiamo troncate nel 90% dei casi. Perché non accetto che mi vengono a dire che questa è un’operazione speciale di denazificazione e che le immagini della guerra sono fake news: questo non lo accetto. Hanno bombardato loro Babyn Yar, hanno bombardato loro gli ebrei ucraini che riposavano in pace dopo essere stati ammazzati dai nazisti”.
Il caso vuole che nella nottata sono uscite proprio le immagini shock sulle fosse comuni di Bucha, i corpi bruciati dei bambini e quelli delle donne e degli uomini ammanettati da corda bianca e sparati alla nuca. Vladimir mi mostra delle immagini, rimango considerevolmente scosso: lavoro nell’immigrazione da anni, ho sentito le storie più disparate e disperate, i racconti più violenti e crudi, mantenendo sempre il distacco fondamentale per riuscire bene nel mio lavoro. Ma questa volta è più difficile, forse perché vedere l’Europa in piena guerra sa scuotere in maniera particolarmente aggressiva.
Le sue confidenze mi spingono a chiedere di più, capisco che posso inoltrarmi nei sentieri della sua sfera personale. Non è infastidito, anzi.
“Non ho problemi a parlare, la gente deve sapere. Più persone sanno, meglio è. Tutti devono vedere quello che ci sta succedendo. Mia mamma e mio papà sono rimasti a Bucha, hanno settant’anni. Vogliono morire là. Non sono come lei, hanno scelto diversamente.”
La signora che mi indica è una donnina di almeno ottant’anni, col passaporto vecchio e scaduto, non quello biometrico che hanno per la maggior parte.
“Ovvio, ha quello vecchio. Mi spieghi una donna di ottant’anni che vive tranquilla nella sua casa a godersi i nipoti come cavolo le viene in mente di farsi il passaporto perché deve scappare dai bombardamenti? È tremendo. Come le può venire in mente di andare in Italia? Non pensava sarebbe dovuta scappare. Non lo pensava lei e neanche noi.
I miei genitori sono a Bucha, vivono là. È tutto distrutto. La loro casa ha ricevuto lesioni ma è in piedi. Ma intorno è tutto distrutto; non sono potuti scappare perché prima c’erano i russi ed adesso mancano le infrastrutture ed i checkpoint sono diventati inflessibili. Due giorni fa sono entrate a casa loro due persone con la mimetica con lo stemma dell’Ucraina, volevano vedere se e chi abitava la casa. Si sono spaventati a morte: non erano ucraini, erano russi. Loro l’hanno capito. Vedevano se le case erano occupate dai residenti oppure no forse, hanno probabilmente derubato le case disabitate. Abbiamo chiamato la polizia, appena se ne sono andati: ma le forze dell’ordine sono venute il giorno dopo, i russi non sono più tornati. Mio fratello invece ha due figli, è rimasto a combattere: ha partecipato ai combattimenti ed è in guerra. È vivo, ma anche lui abita a Bucha: la sua famiglia da lì non è riuscita a scappare. Sono vivi, lui non vuole parlare e forse la moglie non gli ha detto cos’è successo realmente. I vicini di casa sono morti: donne e bambini, senza differenza. Stupri ed esecuzioni. Siamo animali, per i russi. Ma molti ucraini, decina di migliaia, rientrano o pianificano di rientrare: vogliamo tornare. E combattere contro tutto questo”.
Vladimir teme, così mi fa capire, che le nipoti siano vittime di violenza sessuale. Le nipoti e la moglie.
Quando parla fuma la sua ennesima sigaretta, il pacchetto di Marlboro rosse è praticamente finito: quando racconta i suoi occhi non si fanno lucidi, sono semplicemente (e drammaticamente) vuoti. Sembrano iridi e pupille trasformate nel trasparente di un fantasma.
Le foto che mi fa vedere prima di salutarmi sono quelle di Bucha, dalla prospettiva dell’abitazione dei genitori in un quartiere ormai fatiscente: mi spiega che scappare per loro è impossibile perché è fisicamente impossibile raggiungere il confine, strade saltate per aria e la loro vettura è irrecuperabile. Ed effettivamente le immagini sono chiare: sembra una prospettiva di una catastrofe naturale impetuosa, sembra sia caduto giù un meteorite.
Quando mi saluta, mi dice:
“Ciao, grazie! E, Паляница (palyanitsa)!”
“Cosa significa?”
“Паляница è un tipo di pane ucraino appiattito, ha una pronuncia che solo noi ucraini riusciamo a dire: i russi non riescono a dirla come noi, una lettera la flettono di più. Tra noi specialmente dall’inizio della guerra ce la diciamo, una sorta di parola segreta, utile anche per capire se ci sono russi che si spacciano per ucraini. Te la dico come ringraziamento, a te!”
Sorrido, e rispondo “Паляница”!
Ripenso ad una foto scattata da un giornalista marocchino presso la stazione centrale di Kramatorsk, nel Donbass: un bambino con gli occhiali tondi steso su una valigia alla stazione. Accanto una busta che indica il logo del binario 9 e ¾, di Hogwarts, la celebre saga creata da J.K. Rowling: ma qui non c’è magia.
Anche Harry Potter è morto in Ucraina.
In copertina: Kyiv, 18 marzo 2022 [foto di Ales Uszinay]
Profilo dell'autore
- , consulente legale specializzato in protezione internazionale ed in diritto dell'immigrazione, si occupa di migranti e della loro tutela. È anche giornalista freelance, con collaborazioni con Melting Pot Europa e Dossier Libia: ha scritto inchieste sui traffici di armi, sulla mafia libica, sui minori stranieri non accompagnati e sul conflitto in Yemen.