Le “madri del Mediterraneo” fra identità mutanti e fiori violati, dialogo con Rita El Khayat

 

In vista della sua partecipazione al Festival Adriatico Mediterraneo 2013 (Ancona, 24-31 agosto 2013) Rita El Khayat, etnopsichiatra e scrittrice candidata a Premio Nobel per la Pace nel 2008, ha gentilmente accettato di rispondere a qualche domanda sulle tematiche di cui tratta nei suoi libri e ne “Il Complesso di Medea, le madri mediterranee” e di cui parlerà ampiamente durante l’incontro “Ferita di parole. Le donne arabe in rivoluzione” nell’ambito delle iniziative del Festival.  Intervista di Monica Ranieri

Lei sostiene una stretta relazione fra la formazione delle giovani generazioni, la condizione delle donne e il modo in cui il discorso del potere, maschile e politico, è articolato. In alcuni paesi tale discorso si accompagna poi all’emergere di un progetto di stampo integralista che sfrutta l’elemento religioso e si nutre di risentimenti derivanti dal passato coloniale. In relazione alla sua esperienza, come questa struttura è cambiata nel corso del tempo e che influenza ha avuto sulla sua vita?
Il modo in cui le società si costituiscono è legato alla prima educazione e alla formazione dei bambini e in questo senso le donne rivestono un ruolo particolare. Hanno il compito di preservare tradizioni e costumi. Così secondo il mio parere le parti più conservatrici delle società cosiddette tradizionali si basano proprio sul ruolo delle donne e dell’eredità che trasmettono alle giovani generazioni. Nel mio libro « N-èmica, Lettera aperta al’Occidente », spiego che la colonizzazione ed il suo impatto su tutti i popoli colonizzati costituiscono il problema maggiore, rispetto alla relazione più definita fra differenti stati e paesi. Ho sofferto molto la condizione di una donna trasformata dal sistema francese e dalle sue regole: forse è meglio avere lo status e il ruolo di una persona “moderna”, o forse no, ma è comunque impossibile oggi immaginare come il mondo arabo sarebbe se non avesse conosciuto la colonizzazione inglese e francese.

I movimenti che hanno caratterizzato la cosiddetta “Primavera Araba” hanno cambiato qualcosa nel sistema educativo e nella consapevolezza delle più giovani generazioni?
Colonialismo, neo-colonialismo e religione non sono le uniche chiavi per comprendere un mondo che oggi corre ad una velocità maggiore che in passato. La globalizzazione sta avendo un ruolo preponderante nella trasformazione dell’umanità, serviranno almeno una cinquantina d’anni per avere un quadro più preciso di quello che sarà in futuro. La Primavera Araba è un’invenzione occidentale, non viene neanche chiamata così nei paesi coinvolti da questi movimenti. Possiamo dire che l’unico potere eretto in reazione all’ Occidente è quello dei movimenti islamisti, e le giovani generazioni vengono educate in questo senso: le ideologie ed i saperi occidentali sono troppo lontani dall’ideale islamico promosso da questi movimenti, quindi si crea un grande problema fra società troppo differenti e mentre gli occidentali crescono in un sistema laico dove la religione è separata dalla politica nel mondo arabo-musulmano i modernisti sono ancora troppo pochi se paragonati ai gruppi tradizionali o integralisti.

Al Festival Adriatico del Mediterraneo il 30 Agosto sarà presente ad una conferenza su donne arabe e rivoluzione. Molti hanno sottolineato che la partecipazione femminile caratterizza particolarmente questo tipo di movimenti. Considerando che anche in passato si sono verificati importanti momenti di resistenza e di lotta all’oppressione da parte delle donne arabe, cosa rende eccezionale la presenza femminile ora?
Parli di donne arabe e rivoluzione ma voglio precisare che prima di tutto questi movimenti non sono rivoluzioni, secondo me. Una rivoluzione è altro, ha bisogno di leader, teorie politiche e obiettivi. Poi, vorrei far notare che non sono molte le donne che partecipano a queste “rivoluzioni”: ne vediamo alcune fotografate o filmate dai giornalisti occidentali, ma se effettivamente si osservano le più recenti circostanze (mi riferisco in particolare alle rivendicazioni in Egitto per la reintegrazione di Morsi, e alle immagini delle settimane fra il 3 e il 30 Luglio) si noterà che le donne sono velate, in disparate, dietro gli uomini, e di gran lunga inferiori di numero a loro.

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E dopo, le donne riescono ad avere un ruolo nella fase di transizione verso la democrazia? Considerando che spesso si prospetta necessaria una riforma a livello giuridico per il pieno riconoscimento dei loro diritti, come è accaduto in Marocco, dove lei è stata una delle maggiori sostenitrici della riforma del Mudawwana, il diritto di famiglia.
Appunto, la risposta è che semplicemente non si tratta di una rivoluzione. Poi, il problema in Marocco è abbastanza differente, perché il cammino è stato diverso rispetto alla Tunisia, all’ Egitto e alla Libia. Forse perché abbiamo aperto sin dal 2004 un nuovo corso per le donne attraverso il nuovo diritto di famiglia. Ma il governo marocchino è islamista (con un’unica donna musulmana nel ruolo di Ministro che sostiene che è normale dare in sposa una ragazzina al suo stupratore) e niente è davvero cambiato (considerando un anno e mezzo di questo governo).

A proposito de “Il complesso di Medea, le madri del Mediterraneo”, perché ha scelto di parlare della donna dal punto di vista del suo ruolo materno, e perché attraverso un mito proveniente dalla tradizione greca?
Penso che finora non si possa negare il ruolo fondamentale delle donne nella cura delle giovani generazioni: più la società è tradizionale e maggiore è l’importanza della madre nel plasmare il futuro dell’intera società attraverso l’educazione e anche attraverso strutture inconsce trasmesse ai bambini. Come antropologa, psichiatra e psicoanalista il modo più facile per costruire nuovi concetti era cercare nei miti e nei simboli della cultura greca, responsabile per la gran parte del processo di civilizzazione del Mediterraneo, anche nella sua parte araba. Sono convinta che esista un’area Mediterranea culturalmente omogenea dal momento che il personaggio della Madre è talmente importante, forte e diffuso: arabi ed ebrei condividono lo stesso atteggiamento nei confronti dei loro bambini, nel ceppo dei gruppi etnici semitici, la vergine Maria è una sorta di Madre Suprema legata allo spirito di Dio e perfino le società più arcaiche dei greci e dei romani erano costruite sulla figura di una genitrice, Hera, la dea-Madre.

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La sua attività intellettuale e l’ impegno sociale l’ hanno portata ad essere prima scienziata, poi artista e scrittrice. Che relazione esiste fra queste differenti anime?
Durante la mia gioventù sono stata istruita per diventare una filosofa o una ricercatrice e insegnante di lettere, e per diverse ragioni sono stata spinta a cambiare tutto, decidendo di diventare invece un dottore, ma non si trattò di una scelta facile. Così conservai in me le mie altre possibilità mai dimenticando o abbandonando la lettura, la pittura ed il disegno e lavorando nel mondo della radio, della tv e del cinema. Ma, attraverso il sistema molto patriarcale della medicina, ed il sessismo inimmaginabile che esiste in quel campo, realizzai che donne non si nasce, lo si diventa. L’arte e la cultura, poi, mi salvarono dalla disperazione e dalla severità di un’unica vita nella sofferenza, malattia e morte che sono pane quotidiano per i dottori. Ho avuto poi la grande possibilità a Parigi di avere come maestro Georges Devereux, il fondatore dell’etnopsichiatria. Ho scritto un libro «Georges Devereux, il mio maestro», che ha vinto il premio F. Alzatore a Cagliari: è molto importante per me diffondere questa scienza e i suoi concetti ed ora sto scrivendo la prefazione e la postfazione di due libri in Italia, scritti uno da un ricercatore universitario e l’altro da uno psichiatra che stanno lavorando sulle idee maturate da Devereux.

Come intellettuale marocchina abituata a lavorare sulla sponda nord del Mediterraneo, cosa pensa della condizione di intellettuali ed artisti sulla sponda sud, mentre quale dovrebbe essere il ruolo degli intellettuali occidentali nel promuovere un produttivo ed efficace dialogo con il mondo arabo e musulmano?
Gli intellettuali Arabi non hanno libertà per esprimere se stessi e sono ignorati nei paesi occidentali che conoscono gli Arabi quasi esclusivamente attraverso la migrazione nelle loro terre. Il livello dell’arte e della cultura è abbastanza debole sulla sponda sud del Mediterraneo, ma non ci sono facili soluzioni: una grande arte in tutto il mondo presupporrebbe condizioni che conosciamo, come la libertà, un’istruzione eccellente durante tutta la sua durata fino all’università, democrazia, rispetto degli individui, uomini e donne, come persone libere ed inviolabili in termini di politica e giustizia.

Nella sua vita, come riesce ad ottenere una sintesi fra le esperienze e il sapere appreso in contesti così differenti?
Devo ammettere che per me è molto complicato riuscire ad avere un equilibrio fra ciò che ho appreso, ma non solo sulle due differenti sponde del Mediterraneo. Viaggiando molto intorno al mondo posso quasi definirmi una mutante, formata da tutte le influenze di cui ho fatto esperienza. Asia, America, Africa e Europa pulsano nel mio sangue. Non sono una cittadina del mondo: sono la proiezione di ciò che gli individui saranno nel futuro. Per ora, è duro, ed anche spietato…

Rita ha fatto riferimento al caso di Amina Filali. Amina si è tolta la vita a sedici anni il 10 marzo 2012, a Larache, sulla costa atlantica nel Nord del Marocco, dopo che il tribunale della città aveva deciso che avrebbe dovuto sposare il suo violentatore. Ci sembra giusto concludere con alcuni versi della poesia “Fiore violato”, che Rita ha scritto dopo aver appreso della sua morte.

Affinché i miei versi si innalzino nella gloria/Di tutte le donne martirizzate da uomini/In queste contrade di uomini/Contrade abiette e svuotate di senso…/Sbocciate in tutte le infamie e le prebende,/Torride nell’estate infernale,/Quando la giustizia è cieca e arretrata,/Le sue vittime sono le giovani e le donne,/Gli orfani e i poveri,/Gli indigenti, i declassati, i solitari./La Primavera araba è macchiata del sangue delle vergini,/Sangue sul quale si fondano desideri rapaci/Di uomini frustrati, aggressivi, straripanti di odio”.

CHI È RITA EL KHAYAT – “Io non lavoro, non scrivo, non faccio conferenze e non comunico per amore dei soldi o del potere, perciò ho lo stile aguzzo e spesso arcigno e scostante delle persone tese in uno sforzo che non riescono a concretizzare”. Sono queste le parole con cui Rita El Khayat, psichiatra e scrittrice nata in Marocco e stabilitasi poi in Francia per studiare, presenta se stessa ed il suo percorso, in realtà assai lontano dal non essere concreto. Attivista per i Diritti Umani Universali e per la cultura della pace, Rita El Khayat è stata infatti candidata a Premio Nobel per la Pace nel 2008, ha ricevuto nel 2006 la cittadinanza onoraria italiana ed è stata docente presso la Cattedra di Antropologia della Conoscenza e del Sapere a Chieti, dopo una lunga carriera che l’ha vista specializzarsi a Parigi in Medicina, diventare allieva di George Devereux, fondatore dell’etnopsichiatria, e nel contempo essere anche la prima speaker donna in Marocco oltre che giornalista per radio, televisione e cinema. All’attivo, in qualità di tagliente ed acuta scrittrice, Rita vanta la pubblicazione di numerosi libri tra cui “La Donna nel mondo Arabo”, “Cittadine del Mediterraneo” e “Il Complesso di Medea, le madri mediterranee”, di cui parlerà ampiamente durante l’incontro “Ferita di parole. Le donne arabe in rivoluzione”, nell’ambito delle iniziative del Festival Adriatico Mediterraneo, in programma ad Ancona, dal 24 al 31 agosto prossimi.

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