La Rimini dei senza diritti, invisibile ai turisti

di Marco Marano

La partenza del corteo è fissata per le 15 di un sabato freddo ma assolato. In inverno Rimini assume tutta un’altra dimensione rispetto alle dinamiche estive di una capitale europea del turismo. Forse è più facile adesso intravedere cosa sta dietro quella sorta di festa permanente che si sviluppa tra maggio e settembre, raggiunta da 14 milioni di persone ogni annata.

E in questo 10 dicembre, proprio mentre le famiglie, le coppie, le comitive iniziano a passeggiare dentro il centro cittadino per gli acquisti natalizi, gli attivisti di Casa Madiba Network, un ex caserma dei vigili del fuoco, prima occupata e poi formalizzata, la cui mission è contrastare il disagio abitativo, si accingono a raccontare per le strade di quel centro addobbato a festa, di un’altra Rimini, di un altro natale: un natale anti-sfratto nell’ambito della campagna “una casa per tutti”.

Sì, perché dietro ogni maschera di benessere si nascondono mostri e fantasmi che si rincorrono, mentre la gente, la borghesia, i benpensanti fanno finta di non vedere, spesso infastiditi da una realtà che non è quella che appare. C’è Federico al microfono, mentre le persone cominciano a raccogliersi davanti l’entrata principale della stazione, nel piazzale Cesare Battisti.  «Siamo oggi qui per affermare il diritto alla casa contro l’austerità e il razzismo. Siamo qui per difendere gli spazi di autonomia, mutualismo e cooperazione. Siamo qui per la revoca della misura che dichiara socialmente pericoloso Moriba, attivista antirazzista per il diritto all’abitare».

Mentre Federico presenta i temi del corteo che da lì a breve percorrerà le strade del centro e una ventina di poliziotti fanno da sfondo con le loro camionette, lo striscione principale è già steso e persone di ogni età, anche con bambini a seguito, si stringono in cerchio.

Chi penserebbe mai che in un luogo come Rimini si possa morire di stenti o di freddo? E’ successo due inverni fa, quando sei senza dimora sono deceduti nell’indifferenza non casuale da parte delle istituzioni locali. Non casuale perché sia il sindaco Andrea Gnassi, che la sua vice, nonché  assessora alle politiche sociali, Gloria Lisi, una sorta di Rasputin al femminile, hanno costruito la loro strategia di gestione del territorio e quindi della circolazione delle risorse economiche, su due parole d’ordine: “emergenza” e “post-riminizzazione”.

Per tutto ciò che non rientra dentro, come quei sei cristi morti all’addiaccio, non può esserci interesse da parte dell’amministrazione. Due parole d’ordine queste che sono l’una l’interfaccia dell’altra, poiché nascondono soprusi sociali, speculazioni edilizie, gestione delle risorse economiche malsane e clientelari. Al punto tale che si potrebbe parlare di un “Caso Rimini”.

Intanto si sono fatte le 15.30 e il corteo si avvia. Quelle 150/200 persone che al Caso Rimini vogliono dare una risposta di umanità e solidarietà sono già in cammino. “La nostra umanità non sarà mai schiacciata” campeggia nello striscione di apertura. “Una casa per tutti!” Urlano i manifestanti. Sono presenti l’ADL Cobas, Città Migrante di Reggio Emilia, Labas e TPO di Bologna. Ma soprattutto i 46 ospiti di Casa Don Andrea Gallo, la struttura di accoglienza nata ad opera dell’Associazione Rumori Sinistri, la stessa che è referente di Casa Madiba Network, che ha visto la luce in seguito a quei sei morti per stenti. Già, proprio loro, quel manipolo di attivisti, gli unici che in questa Rimini ricca e spendacciona si sono indignati e hanno deciso di agire.

Per entrare nei meandri del Caso Rimini si può partire proprio dalla storia di Casa Don Gallo. Ma prima occorrono dei dati, per dare un ordine di misura della situazione di apparente felicità collettiva. Nella sola città di Rimini ci sono 15.000 edifici sfitti e 34.000 in tutta la provincia, la gran parte privati. Nel 2015 vi sono stati 1664 sfratti per morosità, una media di 4 al giorno. Sul territorio, secondo stime della Caritas, girano 230 senza dimora e 2500 in transito. Nella graduatoria Erp per l’assegnazione delle case popolari ci sono 1200 persone. L’agenzia per la locazione, quella che dovrebbe fare da incrocio tra domanda e offerta, avrebbe a disposizione 700.000 euro ma ne ha spesi 100.000 per aiutare 17 persone. Il budget dell’intero welfare locale ammonta a 40 milioni.

Federica, è la rappresentante dello Sportello Diritto all’abitare di Casa Madiba Network, gestito dall’ADL Cobas: «Riminizzazione è sinonimo di cementificazione, un processo che per anni ha visto protagonista l’impresa edile Forlani, che adesso è fallita. Erano proprietari di 16 mila metri quadri di territorio, svenduto ad HERA nel 2006 (il gruppo che gestisce il servizio idrico, ndr). Come svenduti sono molti luoghi pubblici messi all’asta. Proprio tre settimane fa è toccato a nove edifici. Il punto è che queste svendite non sono funzionali ai bisogni del territorio, ma a valorizzare progetti turistici… » Ecco perché si parla di post-riminizzazione.

Dicevamo di Casa Don Gallo, dove attualmente è presente l’unico sportello in città per i senza dimora. E’ stata affidata dal Comune, che aveva garantito 15.000 euro, all’associazione Rumori Sinistri,  per far fronte all’emergenza freddo tra il 23 dicembre 2015 e il 15 aprile 2016, al fine di evitare altre morti per strada. Era attrezzato a dormitorio e gli attivisti l’hanno trasformata in una “casa degna”, sostituendo le brandine della protezione civile con dei veri e propri letti e aggiungendo altri servizi non previsti: dalla colazione allo sportello salute. Tutto a spese loro, con le entrate delle feste a Casa Madiba.

Nella strategia emergenziale del Comune l’idea era quella di rigettare in strada gli ospiti dopo il 15 aprile. Ma ovviamente l’associazione si è rifiutata continuando a garantire l’accoglienza. In risposta l’assessora Gloria Lisi non solo si è rifiutata di corrispondere la cifra pattuita, ma ha pure intimato il pagamento di 1800 euro per le bollette, pena l’esclusione da qualsiasi progetto pubblico.

«La vicesindaco Lisi – continua Federica – ci ha espressamente detto che non abbiamo più diritto a quei soldi e che se avesse saputo che l’inverno scorso fosse stato così mite non l’avrebbe neanche aperta l’emergenza freddo».

C’è in realtà un retroscena relativo alla “Rasputin riminese”, poiché prima di diventare assessora al welfare e vicesindaco era responsabile della gestione del Centro Operativo di Prima e Seconda Accoglienza della Caritas Diocesana di Rimini. Ora, dalla Caritas cittadina passano la maggior parte delle dinamiche sia sui senza dimora che sullo Sprar, cioè il programma nazionale di accoglienza dei rifugiati.

E anche qui la parola d’ordine è “emergenza”, poiché su di essa sono costruite le strategie di accoglienza del Comune di Rimini e i relativi flussi di denaro pubblico. Sia nel caso dei senza dimora che dei rifugiati i fenomeni sono strutturati quindi, una volta finita la fase emergenziale, le persone devono strategicamente ritornare in strada.

«I servizi della Caritas non sono sufficienti – sottolinea Federica – anche perché il loro approccio rispecchia una realtà che poteva andare bene negli anni Ottanta, quando chi stava in strada lo faceva per scelta o perché era investito da problematiche di alcolismo o tossicodipendenza. Oggi la situazione è radicalmente cambiata. In strada si dorme perché costretti: da chi ha perso il lavoro ai divorziati, da chi non ha reti familiari di sostegno ai rifugiati che escono fuori dai programmi di accoglienza finanziati senza niente in mano».

Il corteo si ferma in Piazza dei Tre Martiri. Manila, una delle attiviste più esperte di disagio sociale, proveniente dalla generazione del G8 di Genova, prende il microfono e si addentra nei vicoli del Caso Rimini: «Abbiamo assistito ad un ventennio di politiche dell’odio… sul ricatto tra permesso di soggiorno e lavoro. La prefettura gestisce il capitolato d’appalto alle cooperative per l’accoglienza sfruttando i migranti. Ci sono alberghi in odor di mafia che sono coinvolti nell’accoglienza. Va creato un gruppo di controllo costituito da soggetti esterni che possano monitorare la situazione».

Ecco un altro capitolo del Caso Rimini che non differisce dalla gestione dei rifugiati in tutte le altre città italiane. È la storia delle terre di mezzo, che ha visto la sua più eclatante espressione nello scandalo di Mafia capitale, dove pezzi di apparato pubblico smistano alle organizzazioni di privato sociale quei famosi 35 euro al giorno cada uno: dallo Sprar ai CAS (Centri di Accoglienza Straordinaria), dai programmi Emergenza Nord Africa a Mare Nostrum. Montagne di soldi senza che vengano erogati servizi efficaci. La maggior parte dei rifugiati che escono da questi programmi balbettano l’italiano, non riescono ad entrare nel mondo del lavoro poiché non esistono né training appropriati né incrocio tra domanda e offerta, e senza lavoro si trasformano in fantasmi, privi dei diritti fondamentali, creati da dei mostri che non hanno interesse ad integrarli, quindi si ritrovano in strada.

«Nel capitolato che la Prefettura attiva per la gestione dei rifugiati – ci racconta Manila – non è garantito praticamente nessun tipo di servizio. E non c’è una unità di monitoraggio per verificare le varie situazioni di accoglienza. Per questo abbiamo chiesto che venga costituito un organo di controllo esterno. Nell’immaginario mainstream al rifugiato vengono dati 35 euro al giorno. Ma in realtà questi soldi dove vanno a finire? La risposta è semplice, li intascano le cooperative che vincono il capitolato, per coprire i loro bilanci».

È chiaro come funziona il meccanismo dell’emergenza: non affrontando un fenomeno in termini strutturali, con una logica di permanenza sistematica nella vita di un territorio, l’apparato pubblico trova soluzioni temporanee per tamponare la situazione sociale attraverso flussi di denaro. C’è a tal proposito uno specifico capitolo che contraddistingue il Caso Rimini, quello degli alberghi. Negli ultimi due anni ci sono stati tantissimi albergatori che hanno presentato le proprie candidature alla prefettura, in modo tale da intercettare questi flussi di denaro. Poi, proprio un paio di mesi fa, la stessa si accorgeva che qualcosa non quadrava. Ben otto degli hotel presenti nella lista, a quanto riportano le cronache mainstream, senza fare i nomi di queste strutture, sarebbero gestite da famiglie della camorra, della sacra corona unita, ci sarebbe una banda di albanesi dedita al traffico di droga e ai furti, c’è il caso della prostituta che fa da prestanome ad un criminale albanese. L’inchiesta è ancora aperta.

Al di là della presenza mafiosa e criminale nel sistema produttivo riminese, entrata grazie a quella borghesia che ha visto soldi facili, così come nelle altre città emiliano-romagnole, sull’accoglienza degli alberghi si sta riproducendo la stessa formula emergenziale che solo apparentemente ha dell’incomprensibile.

A segnalarci il caso sono proprio gli attivisti di Casa Madiba Network. Si tratta dell’hotel Brennero di Miramare, dove un mese fa sono stati trasferiti dall’ex CIE, adesso Centro di Accoglienza Rifugiati, di via Mattei a Bologna, una trentina di persone. Il punto è che all’albergatore non è stata data nessuna indicazione gestionale, non ha mai avuto contatti con nessun referente istituzionale, e le persone in accoglienza non hanno vestiti, né un pocket money per i bisogni primari. Niente insomma.

Se in Italia è stato possibile generare nuovi fenomeni di razzismo e xenofobia la causa è dovuta proprio alle speculazioni sull’accoglienza, che hanno prodotto emarginazione sistematizzata al fine di fare cassa per i soggetti in campo del privato sociale. A ciò si aggiunga la percezione innescata dai cosiddetti portatori d’odio, sulla competizione tra il disagio degli italiani e quello dei migranti. Continuano a chiamarlo scontro tra poveri: “prima noi e poi loro” è la frase ormai ricorrente. «Nelle ultime settimane – ricorda Federica – abbiamo accolto presso lo sportello di Casa Don Gallo ben sei nuclei familiari, che si sono rivolti a noi perché sotto sfratto, e le loro lamentele sono state principalmente rivolte contro gli immigrati che rubano il lavoro».

La penultima tappa del corteo è proprio alla Questura di Rimini. Qui viene ricordato il caso ancora aperto di Moriba, un rifugiato attivista antirazzista. La sua storia ha dell’incredibile ed è raccontata nel sito di Casa Madiba Network, in un comunicato del 13 dicembre di quest’anno: Moriba è stato condannato a due anni per una rapina che ha subito e non ha commesso, è stato leso il diritto di difesa non notificandogli gli atti  del processo e non avendo, ovviamente,  presenziato alle nove udienze che hanno preceduto la lettura del dispositivo di oggi. La prova inconfutabile sarebbero i documenti che Moriba avrebbe perso mentre cercava di ripararsi dalle bastonate del protettore. La Sentenza verrà depositata entro 90 giorni, dopodiché si potrà fare appello. Considerando che sono passati oramai 5 anni dal fatto e per il ricorso alla Corte d’appello si attende dai 2 ai 5 anni, è possibile la prescrizione. Rimane ora la battaglia importantissima relativa al ricorso della revoca della protezione umanitaria avvenuta con un’ordinanza della Commissione Territoriale sulla base di una nota della Questura di Rimini datata 5 aprile 2016, quindi prima che Moriba avesse subito una qualche condanna, nota nella quale si fa esplicito riferimento all’attività politica di Moriba con le due denunce per i sequestri di Casa Madiba e il Villino Ricci”.

Ma quella di Moriba non è l’unica storia che vede “sotto attacco” il lavoro degli attivisti delle due strutture solidali che cercano di sopperire alle lacune prodotte dal Caso Rimini. La macchina del fango la chiamano, generata da una strana assonanza d’intenti tra la polizia e i neofascisti di Forza Nuova, che stanno prendendo sempre più piede in città, i quali chiedono la chiusura delle due strutture di accoglienza solidale poiché luoghi di rifugio per sbandati, clandestini, persone socialmente pericolose.

È ormai buio ed il corteo si conclude proprio a Casa Madiba. Si prepara una festa per la sera, ma lì le attività e i servizi agli ultimi della città sono molto diversificati durante il giorno. Ci sono gli sportelli lavoro e per la casa, dove si assistono anche donne vittime di tratta per avviarle a percorsi di protezione sociale. Ci sono i corsi di lingua. C’è il guardaroba solidale con la raccolta di indumenti, alimenti a lunga conservazione, materiali per l’igiene personale. C’è il mercato dei produttori locali indipendenti chiamato “i custodi del cibo”. C’è insomma un modello sociale sostenibile fondato sul volontariato che dimostra come sia possibile una strada diversa al Caso Rimini.


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