Banche, energia e lotta alla clandestinità: 42 anni di ambiguità tra Libia e Italia

A partire dalla caduta della monarchia senussita  ad opera di un colpo di stato guidato da Muammar Gheddafi nel 1969, la nuova Jamahiriyya (massocrazia, governo delle masse) libica venne ad identificare l’Italia come il nemico pubblico contro cui canalizzare il malcontento popolare; si riaprì, dunque, il contenzioso sul risarcimento dei danni bellici risalenti all’occupazione italiana, contenzioso che si risolse solo nel 1998 con l’accordo bilaterale Dini-Mountasser, che inaugurò un periodo di feconde relazioni commerciali fra i due paesi.

Nel decennio degli anni ’80, mentre i governi occidentali (in particolare gli Stati Uniti di Ronald Reagan) deploravano la condotta del colonnello libico che, nel suo disegno anti-sionista ed anti-occidentale, supportava economicamente le azioni di gruppi terroristici come l’Ira irlandese ed il palestinese Settembre Nero, l’Italia iniziò un progressivo avvicinamento nei confronti del paese nordafricano, mossa da interessi di natura economica.

Il forte isolamento internazionale non prevenne il nostro Paese dal considerare le potenzialità energetiche della Libia, dotata di enormi giacimenti di gas naturale e petrolio di ottima qualità, la cui produzione giornaliera sfiora la cifra di 1,9 milioni di barili. L’interesse italiano nelle risorse naturali libiche si concretizzò, in primis, nella presenza dell’Eni sul territorio d’oltremare ed in secundis (tramite una joint-venture italo-libica del 2006 che ha portato alla costruzione del gasdotto più lungo del Mediterraneo) nel “Green Stream”, 85km di tubature che uniscono Wafa e Gela e trasportano quel gas naturale che copre il 15% del fabbisogno annuo italiano.

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I rapporti economici fra i due paesi dirimpettai si sono ulteriormente intensificati con il Trattato di Amicizia, Partenariato e Cooperazione, in vigore dal febbraio 2009, consolidato dalle visite diplomatiche dei due capi di stato, Gheddafi e Silvio Berlusconi, rispettivamente a Roma ed a Tripoli. A partire da questa data, il partenariato commerciale è divenuto sempre più fitto.

Effettivamente, la Libia si colloca rispettivamente al primo e al terzo posto tra i nostri fornitori di petrolio e gas naturale; l’Italia è il primo acquirente del greggio libico e gli idrocarburi rappresentano circa il 99% delle importazioni italiane dalla Libia. Gas e petrolio vengono importati e raffinati in Italia, per poi essere venduti in percentuale del 27% al paese nordafricano. Inoltre, l’accordo bilaterale del 2008 ha fruttato delle importanti commesse per le imprese italiane: 2,3 miliardi di euro per la costruzione dei 1.700 chilometri dell’autostrada costiera libica, la costruzione di un centro congressi per Impreglio e commesse di materiale bellico e ferroviario per Finmeccanica ed Ansaldo.

Chiaramente il volume degli investimenti italiani in Libia è enorme e fa del nostro paese il primo partner commerciale dell’ex-colonia. Tuttavia, il tornaconto economico di tali trattati non è a senso unico, Gheddafi per primo, insieme ad altri imprenditori libici, investe cospicuamente in Italia e si configura come un importante partner commerciale in diversi settori.

Tra 2008 e 2010, quasi 40 miliardi di euro sono stati investiti da libici in Italia:

  • la Banca Centrale Libica e la Lybian Investement Authority hanno investito 2,5 miliardi di euro per acquisire circa il 7% di Unicredit, divenendo il primo azionista del primo gruppo bancario italiano;
  • il 7,5% detenuto da Lafico nel capitale azionario della Juventus ne fanno il quinto investitore per dimensioni sulla Borsa di Milano;
  • l’1% dell’ENI è stato acquisito dai libici, che hanno prorogato le concessioni energetiche fino al 2045, in cambio di investimenti Eni per 28 miliardi di euro;
  • Lafitrade e Fininvest, controllano il 10% di Quinta Communications, società di Tarek Ben Ammar;
  • Cesare Geronzi, patron di Generali, ha accolto anni fa la Libia nel patto di società di Banca Di Roma (poi Capitalia), così come in Banca Ubae;
  • il 14,8% diRetelit, società di telecomunicazioni, è controllato dalle finanziarie libiche.
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Gli interessi italiani in Libia vanno, tuttavia, oltre il settore energetico. Abbracciano, infatti, anche la dimensione della lotta all’immigrazione clandestina, dato che la Libia è storicamente centro di smistamento e punto di partenza dei migranti diretti verso le coste italiane. A questo proposito, è bene ricordare il Protocollo siglato dai due stati nel 2009 che prevedeva il versamento di 5 miliardi di euro da parte dell’Italia, dilazionati in 20 anni, per ottenere in cambio il blocco preventivo delle partenze dei migranti africani alla volta della Sicilia.

L’imbarazzo del governo italiano di fronte ai fatti di sangue, che hanno reso tristemente nota la Libia negli ultimi giorni, ha dunque una chiave di lettura più economica che politica. Probabilmente, la condanna recisa dei comportamenti efferati di chi era stato riabilitato, politicamente ed umanamente, in qualità di amico e partner dell’Italia, avrebbe leso interessi economici vitali, quali l’import-export di petrolio e gas naturale ed avrebbe dato una definitiva spallata alle politiche migratorie italiane. Il comportamento basculante del nostro governo e la sua reticenza a prendere le distanze dal dittatore nordafricano, pedina ancora troppo importante nello scacchiere economico mediterraneo, dimostra ancora una volta che pecunia non olet. Almeno fino ai primi scricchiolii del Colonnello. Una volta appurato che Gheddafi controlla ormai solo l’area circostante al suo quartier generale, il ministro La Russa può dire ai cronisti che “il trattato Italia-Libia non c’è più“.

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Alessandra Laurito


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