Quarto e ultimo appuntamento di Frontiere News con “Come due stelle nel mare”, il libro di Carlotta Mismetti Capua nato a seguito dello straordinario quanto casuale incontro dell’autrice con quattro ragazzi afghani. Ribadiamo ancora una volta tutto la nostra riconoscenza verso l’autrice e l’editore, Piemme, che di comune accordo hanno deciso di applicare i termini delle licenze Creative Commons per i primi quattro capitoli dell’opera. Le immagini sono di Massimo Bucchi. Potete trovare il libro online e nelle migliori librerie. Qui invece trovate le puntate precedenti.
4. FORREST GUMP SCOPRE VIA VOLTURNO
Al portone di Save the Children, poi – pioggia o non pioggia, bomba o non bomba come cantava Venditti – siamo arrivati, proprio come la canzone “siamo arrivati a Roma”. Senza Michelangelo, Sordi e Venditti a Roma vi perdete sicuro. Save the Children è un’associazione indipendente nata in Inghilterra, una Ong che in Italia lavora con gli enti pubblici e che di solito – nei paesi in guerra o dove mancano le cose primarie, tipo l’acqua o la pace – si occupa di mantenere un bambino a casa sua: nel suo villaggio, nel suo orfanotrofio o nella sua tenda.
Bene, non saprei dire come si vive in una tenda o in un villaggio dove mancano le cose primarie, tipo l’acqua o la pace. Però un collega mi ha detto questo: «Non ha senso, mantenerli in questi posti. Se li vedi sono tuguri. Magari c’è una donna, l’anziana del villaggio, che dà da mangiare a otto bambini che magari sono orfani o malati. Ma sono tanti, troppi, e poi come vivono? Guarda, Carlotta, stai male quando li vedi, davvero ti chiedi se ha senso mandare questi spiccioli…».
E poi il collega, che si chiama Carlo e queste cose – i tuguri – le ha viste coi suoi occhi, mi ha detto anche che «l’unica soluzione sarebbe portarli qui. adottarli, portarseli a casa: ma la legge non lo consente. Ecco, l’unica battaglia che possiamo fare qui, in Italia, in Europa, è quella per la legge sull’adozione internazionale».
Questa battaglia da noi c’è già. Ma non si vede tanto, come il Circo Massimo. Save the Children con 80 centesimi al giorno assiste i bambini nel tugurio che ha visto Carlo. E se ora sta qui a Roma, Capitale del Regno, Europa, si vede che c’è bisogno anche qui. Ma a questo Carlo non lo impressiona. Può darsi che nel tugurio non ci volevano stare – forse mancava l’acqua pulita, forse c’erano troppe mine sotto terra: o, invece stavano bene, che si può essere felici anche a piedi scalzi.
Quelli di Save the Children li incrocio spesso la domenica mattina: stanno spesso a Piazza del Popolo, con le giacche rosse degli operai. Come catarifrangenti gentilissimi fermano le persone in questa piazza che pare una conchiglia, dove un tempo c’erano dei bar molto eleganti e ora no, perché è tutto un precipitare a Roma, oramai. In questa conchiglia certe domeniche il Comune dà il permesso di fare delle mostre di automobili, delle volte c’è la fiera della Polizia, quando i ragazzi di Save the Children chiedono un minuto di attenzione la risposta che ricevono più spesso è: «Vi conosco già», anche se poi magari uno non li conosce.
A Save the Children Akmed ha un colloquio privato, a porta chiusa, con un mediatore: un ragazzo con i basettoni e il giubbotto di pelle marrone, poco più grande di lui. Ma su questo comincio ad avere dei dubbi: come mia madre non distingue tra un trentenne e un trentacinquenne, io non distinguo più, son tutti giovani uguali, dai 16 ai 26. Questo ragazzo, afgano anche lui, che ha studiato da mediatore e parla l’italiano, fa appunto questo: media. Ma io sono fuori dalla porta e non so come sta mediando. Credo che avvicina parole e pensieri. Le parole afgane e quelle italiane sono diverse, ma delle volte, molte volte, forse tutte le volte, anche i pensieri di un avvocato e quelli di un ragazzino scappato dalle bombe sono diversi.
Quando Akmed esce dal colloquio, per via di questa diversità ineluttabile della vita che è parte anche della fatica umana di sentirsi pesare addosso i panni dell’altro, è piegato in due.
«Ora sa come funziona il percorso e ha rilasciato una dichiarazione qui da noi,» mi spiega l’avvocato, che è poi una ragazza, col golf a righe marroni e verdi «dove chiede tutela come minore, e il riconoscimento dei suoi diritti. Si è dichiarato sedicenne e afgano. Ora dobbiamo chiamare il commissariato, quando avranno una volante libera lo verranno a prendere.»
Non so se è la volante della Polizia o la dichiarazione o il percorso, ma Akmed è piegato in due, si tiene lo stomaco, ha paura. «Akmed?» gli batto sulla spalla. «Hey, Akmed, dove sei? io sono qui.» Non parla, si abbraccia la pancia. Ha capito o non ha capito? Ma, con lo stomaco chiuso e l’ansia di una Nonna Papera, capisco per la prima volta l’effetto che fa quella cosa che d’ora in avanti chiameremo la “Procedura”.
La Procedura, come è molto ben spiegato in un documento che mi consegna un’impiegata di Save the Children, giustamente preoccupata delle procedure, spiega appunto la «Procedura seguita per richiedere l’inserimento di un minore non accompagnato in una struttura protetta». Punto Uno, Due e Tre. Tutto molto preciso e utile, son certa.
Non ho letto queste procedure, quando ero in via Volturno, le ho lette solo dopo. Ma ho letto un’altra cosa, in via Volturno 58, che stava appiccicata sulla porta dove Akmed ha fatto il colloquio e rilasciato la dichiarazione che era minorenne. L’avvocato Susanna, col golf a righe, sulla porta della sua stanza ha appeso un cartello con una frase di Martin Luther King: «La domanda più importante della nostra esistenza è: cosa posso fare io per gli altri?».
Questo diceva il cartello, e questo ho letto. Sono scesa di corsa a comprare un cellulare, perché senza la minima idea della procedura e di cosa sarebbe successo in commissariato, ho capito che ad Akmed forse mancava un cellulare. Per chiamare qualcuno, magari anche Save the Children, che gli aveva dato un numero, ma non verde.
Ma può darsi che dica una bugia, che il cellulare alla fine servisse a me per parlare con Akmed, per sapere dove dormiva. In fondo, proprio una cosa inutile, una cosa ingenua e marginale, questa di sapere dove dormiva. Una cosa proprio da Papera.
Non essendo pratica, mi pareva che questa fosse proprio l’unica cosa che potevo fare in quel momento, per rispondere alla domanda di Martin Luther King. Se uno ti fa una domanda si aspetta che rispondi, no? E soprattutto ora io me lo aspettavo, da me. Per cui sono scesa alla stazione Termini a comprarne uno. E la stazione Termini è addobbata per il Santo Natale, e alle cinque di questo confuso pomeriggio succede un’altra cosa divertentissima. In fondo è lo scopo di questa storia, farvi ridere tantissimo.
Carlotta Mismetti Capua (immagine di Caterina Notte) è giornalista e vive a Roma. Nel 2010 ha vinto il premio Ischia del Giornalismo per lo storytelling su Facebook ‘La città di Asterix’: un corto ispirato alla sua storia ha vinto il Rome Fiction Fest. Ha lavorato a Time Out, ‘la Repubblica’, Epolis. Per dieci anni si è occupata di televisione e radio, curando la rubrica del Venerdì di Repubblica, e poi ancora al settimanale La Tele e al Tv Magazine: ora si occupa di culture e città per Vogue e l’Espresso. E’ stata a lungo corrispondente dall’Italia per il mensile giapponese ‘Eat’, ha scritto per molti giornali di costume e tra questi D di Repubblica e il Diario della Settimana. Ha collaborato al libro fotografico Wo-man (Calco) sulla vita dei transessuali a Milano, e alcune sue fotografie sono stata esposte in un progetto di narrazione dei migranti alla Biennale di Cuenca dell’Ecuador, nel 2009.
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