Voices of Indian Women: testimoniare il grido delle donne dei villaggi

Intervista di Teodora Malavenda, immagini di Marta Gabrieli

Con più di un miliardo di abitanti è il secondo stato più popoloso del pianeta, dopo la Cina. Potenza economica emergente, l’India ha maturato nel corso dei secoli un fascino irresistibile che la rende ancora oggi meta ambita per chi è alla ricerca della felicita. Ma il continente dei colori e delle spezie, purtroppo non è solo magia e spiritualità. A caratterizzarlo contribuiscono anche povertà, analfabetismo, malnutrizione e violenza contro le donne.

Gli ultimi dati raccolti dall’Istituto di Ricerca Interregionale sul Crimine e la Giustizia delle Nazioni Unite (UNICRI) rivelano che quasi il 40% delle donne sposate dichiara di avere subito maltrattamenti fisici da parte del marito e che vi sono circa 10.000 casi di infanticidio femminile l’anno. E mentre dalle grandi città come Delhi e Calcutta provengono i segnali di importanti cambiamenti, è qui infatti che le donne rivestono ruoli rilevanti nelle aziende, in politica e nella società, la situazione non tende a migliorare nei villaggi dove una cultura permeata da un forte maschilismo continua ad influenzare le decisioni familiari. Quella rurale è una società che si rifiuta di garantire alle bambine un’istruzione, che le sposa troppo giovani e le scambia per denaro.

Sono numerosi i movimenti locali che si occupano dei diritti delle donne ma spesso marginalizzati perché osteggiati in primo luogo dalla polizia e dalle autorità corrotte. Nel mese di giugno (2011) un piccolo grande contributo arriva anche dall’Italia dove Marta Grabrieli e Francesca Zoppi, da sempre attente alle tematiche femminili, mettono a punto il progetto Voices of Indian Women realizzando sul posto video, interviste e fotografie per testimoniare le sofferenze di chi quotidianamente si batte per difendere i propri diritti e far conoscere all’Occidente una realtà solo apparentemente lontana.

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Come nasce questo progetto?

Nasce dalla necessità di verificare sul campo le numerose informazioni, acquisite nel corso degli anni, sulla condizione femminile in India. Molto ha inciso la tesi di master condotta da Francesca, dal titolo “Sex trafficking in India: Are current strategies working? A case study of the Gulabi Gang”. La tesi analizza le strategie adottate contro il traffico sessuale e si chiede se siano efficaci o meno, prendendo in considerazione le risposte delle donne intervistate. Da questa ricerca è nato il bisogno di dare voce alle vittime di una società ancora legata ad una cultura estremamente arretrata.

Parlatemi del vostro viaggio in India.

Abbiamo percorso gran parte degli stati dell’India del Nord, soprattutto l’Uttar Pradesh e le sue zone rurali, lavorando nei bordelli, nelle case d’accoglienza, negli ashram, nelle abitazioni private e per le strade. Abbiamo anche conosciuto la Gulabi Gang (la più temuta “banda in rosa” dell’India settentrionale creata da un’ ex venditrice di tè, Sampat Devi Pal, che raduna donne che si battono in difesa dei loro diritti).

Quali sono i problemi più frequenti che devono affrontare le donne indiane?

Innanzitutto l’integrazione e l’emancipazione. Si vive ancora basandosi su antiche tradizioni legate al ruolo subordinato della donne in famiglia e si attribuisce grande importanza al sistema delle caste. Oggi una parte delle donne indiane è emancipata, soprattutto chi vive nelle grandi città. Ha un lavoro, non indossa più la sari, ed agisce autonomamente. Queste donne appartengono alla casta alta della società. A quella benestante. Le donne e le bambine che vengono trafficate, vendute, fatte prostituire dopo il matrimonio, o rinchiuse in case governative per donne disabili dopo morte del coniuge, appartengono alla casta inferiore (Dalit). A quella degli intoccabili.

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Qual è stato il vostro approccio con le vittime?

Poiché lo scopo del nostro progetto è di ascoltare le loro voci, abbiamo trascorso tante giornate in compagnia delle vittime condividendo spazio e tempo, gioia e dolori con il massimo rispetto, senza forzature o pressioni. Non abbiamo mai preteso che ci raccontassero le loro storie. Mai posto domande estremamente personali. Abbiamo assecondato le loro abitudini finchè spontaneamente c’hanno raccontato le esperienze che hanno vissuto.

E’ stato difficile realizzare gli scatti?

(Marta ha curato l’aspetto fotografico, ndr) L’approccio fotografico è stato piuttosto giocoso. Io fotografavo loro, loro fotografavano me. Era uno scambio. Una dinamica che è nata stando lì e vedendo sia le adulte che le bambine incuriosite dal mezzo.

Avete ascoltato diverse testimonianze. Raccontatemene qualcuna.

Il messaggio di speranza e di determinazione di tutte le donne con cui abbiamo parlato è stato di gran valore. Una delle testimonianze più forti che ci rimane è quella della figlia di una donna costretta dal marito a prostituirsi dopo il matrimonio, in un quartiere nella provincia di Delhi. Dopo avere passato del tempo con sua madre, la figlia ha affermato di non volere assolutamente rivivere quell’esperienza. Ciò che è emerso è che le figlie non vogliono un futuro come quello delle loro madri e che le madri auspicano per le loro figlie un futuro di libertà e di autodeterminazione. Ma nella loro India. Non in altri Paesi.

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Quale contributo pensate di poter dare alla lotta contro la violenza femminile?

Vorremmo sensibilizzare la gente e denunciare la questione perché i diritti di queste donne vengano rispettati e possano vivere una vita senza paure e decisioni non volute. Vogliamo infine che più gente possibile venga a conoscenza di questa realtà, che purtroppo, pur se in maniera differente, è presente anche in Occidente. E spesso ignorata.


2 Comments

  • Buongiorno!
    Ho letto la vostra intervista su frontierenews, e l’ho trovata molto interessante, essendo stata in india fino a poche settimane fa, per circa due mesi, di cui uno in volontariato nel Rajasthan, a Jodhpur, proprio per un progetto di Women Empowerment.E infatti, l’unico appunto che farei a questa intervista è quanto dite degli eventuali maggiori diritti delle donne di casta alta rispetto a quelle di casta Dalit:non è propriamente corretto, almeno non in tutta l’India.Nel Rjasthan ad esempio, essendo predominante la cultura Rajput, le donne di questa casta, proprio perchè di alto rango sociale sono costrette a rispettare le rigide tradizioni della loro casta senza via d’uscita, come per l’appunto il matrimonio combinato;e di conseguenza la rinuncia ai propri studi; la completa disposizione alle mansioni della casa;devono indossare abiti tradizionali, per l’appunto la sari, e coprire il volto con il velo se c’è un uomo presente che non sia il marito o un maschio della famiglia;è raro che possano uscire sole, se non in età avanzata, e soprattutto la maggior parte non può uscire aldilà delle 18h30 del pomeriggio, se non con il proprio marito; spesso durante le riunioni famigliari devono indossare il velo che gli copra la faccia e non sono tenute a parlare se non a bassissima voce quando necessario.Ovviamente alcune di queste cose, ma non tutte, valgono anche per le Dalit, ma sulle Rajput vale una pressione famigliare che vi assicuro essere fortissima e pesantissima che paradossalmente colpisce meno le Dalit.
    Ne ho conosciute di donne infelici……le più infelici erano loro, sembravano esserlo piu delle intoccabili, sebbene fossero più benestanti..anche se, oramai, casta alta non significa sempre benestante!
    vi ho scritto una mail;)
    Ilaria

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