Partiamo dalla definizione di “Sovranità alimentare”, istituita nel 2007 in occasione del Forum di Nyeleni, svoltosi in Mali: è il diritto dei popoli a un cibo salubre, culturalmente appropriato, prodotto attraverso metodi sostenibili ed ecologici, in forza del loro diritto a definire i propri sistemi agricoli e alimentari. Un concetto che, già un anno prima, la Fao aveva istituzionalizzato a livello mondiale.
Ma quello della Sovranità alimentare è anche un tema che, in Italia, è stato affrontato dal premier Mario Monti, con una politica non proprio di “sostegno”. Risale al 27 luglio scorso, infatti, l’iniziativa del Consiglio dei Ministri di presentare ricorso alla Corte Costituzionale per “bloccare” un corpus di leggi regionali emanate dalla Regione Calabria e finalizzate alla libera circolazione delle merci e dei prodotti locali.
L’avvio del procedimento dinanzi ai quindici giudici della Consulta è stato motivato con la sussistenza di presunti abusi legislativi, dei quali è stato appunto accusato l’ente territoriale calabro, colpevole, a detta dell’esecutivo, di aver superato i limiti di competenza e autonomia normativa nella procedura produttiva della legislazione interna.
In particolare, il Governo tecnico ha fatto ricorso contro l’agricoltura a “chilometro zero”: una pratica produttiva promossa per mezzo di disposizioni che contrasterebbero con i princìpi nazionali e comunitari. È una sorta di “concorrenza sleale”, in sostanza, il rischio paventato dall’esecutivo, in caso di prosecuzione della validità delle leggi regionali della Regione Calabria. E, anche, un limite alla libera circolazione dei prodotti, a scapito di quelli “extraregionali”. La parola è rimessa alla Corte Costituzionale, dalla cui sentenza emergerà, di sicuro, la ratio del conflitto.
I rappresentanti delle realtà produttive autonome (le stesse che, molte volte, hanno sede nei medesimi luoghi di produzione della merce distribuita e poi venduta) parlano di attentato al liberismo. Un tentativo di “distruggere” le aziende locali, a favore di quelle multinazionali che, con la loro fagocitante presenza sul territorio, appiattiscono di fatto il commercio, l’offerta e la concorrenza.
Se riduciamo, poi, lo zoom sulle scelte politiche compiute, ad ampio respiro, in tema di “Sovranità alimentare”, ci accorgiamo di come, anche a livello comunitario, si stia agendo nell’ottica di una diminuzione della libertà di investimento e di autonomia produttiva nel settore biologico e agroalimentare.
Risale, ancora, al 12 luglio scorso, una sentenza della Corte di Giustizia Europea con cui è stato imposto il divieto di commercializzare le sementi delle varietà tradizionali e diversificate che non siano iscritte nell’apposito catalogo ufficiale comunitario. Sotto la “scure” dei giudici di Lussemburgo, sono finiti, così, tutti i produttori indipendenti che curano e coltivano le sementi “in proprio” insieme con le associazioni di volontari impegnati nella tutela della coltivazione antica e tradizionale.
Per quanto ostile alle realtà indipendenti, la sentenza non ha promosso comunque nulla di diverso rispetto a quanto, già nel 1998, era stato istituito dalla Comunità europea: ovvero il divieto della commercializzazione delle sementi agli agricoltori autonomi. All’epoca era una norma emanata per mezzo di una direttiva. Oggi è una debita conferma. Emanata, invece, per mezzo di una sentenza.
Emilio Garofalo
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