Bologna, la vita in attesa dei ragazzi dell’ “Emergenza Nord Africa”

di Marco Marano

BOLOGNA – Traore ha un viso sorridente e un’espressione attenta, eppure le cose che ha da dire sono piene di preoccupazione. La sua vita in questo momento potrebbe riannodarsi ancora una volta, come quella di un migliaio di altri cittadini provenienti dall’Africa del nord e da quella sub-sahariana. Si tratta dei cosiddetti profughi dell’emergenza nord Africa, che per esigenza di sintesi vengono chiamati ENA.

Quelli che fuggirono dalla guerra che portò alla caduta di Gheddafi e che la Protezione Civile prese in carico, finanziando e supervisionando l’operazione con i gestori locali dei territori comunali, dove sono stati collocati. Sono prevalentemente ragazzi, si potrebbe parlare di loro in termini generazionali, come la rappresentazione della gioventù nord africana e sub sahariana.

Il 31 dicembre del 2012, dopo quasi due anni da quando è partita l’operazione di accoglienza, la Protezione Civile chiuderà le convenzioni con i gestori. Questo significa che Traore, come tutti i 22 ospiti dovrà essere messo fuori dalla struttura di accoglienza di via del Milliario a Bologna, senza sapere dove andare. “Noi siamo tranquilli per la nostra vita – dice Traore – perché qui non c’è la guerra, però siamo molto preoccupati per il nostro futuro, perché non sappiamo dove andare dopo il 31 dicembre”. Traore proviene dal Mali, ha ventisette anni e prima di partire faceva l’insegnante di francese. Il suo viaggio è stato interminabile perché dal Mali si è spostato in Algeria e poi in Libia dov’è rimasto due anni, poi Lampedusa e per finire nel piano profughi di Bologna, nell’agosto del 2011.

“Sono tutti ragazzi in gamba…” Sottolinea un’operatrice della Cooperativa Arcolaio, ente gestore del centro di accoglienza di via del Milliario. Sì perché, un po’ tutti, da quando sono a Bologna, hanno, in un modo o nell’altro, cercato di crescere: chi prendendo la licenza media, chi frequentando una scuola media superiore, chi attivandosi nel mondo dei mestieri con delle borse lavoro. Hanno in primo luogo studiato e imparato l’italiano, ed è questo che ha permesso di farli interagire tra di loro, anche in modo solidaristico. Eppure sono di paesi ed etnie diverse: Mali, Costa d’Avorio, Sudan e Tunisia. Infatti, una delle maggiori preoccupazioni dei ragazzi riguarda i corsi, la scuola, la ricerca del lavoro. Che fine farà tutto questo impegno, costruito su grandi aspettative per il futuro?

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“Solo se avremo un lavoro, potremo risolvere la nostra situazione”, sottolinea Traore. “Già, il lavoro! – ribatte Doumbia, un’altro cittadino maliano – Per me il futuro significa trovare un lavoro e poi una casa”. Doumbia non è del nord come Traore, lui viene dalle parti di Bamako e a ventidue anni ne ha viste di tutti i colori. Più di Traore si scalda quando parla di quello che sta avvenendo nel nord del suo Paese, lui che è musulmano: “Noi vorremmo che in Mali finisca la guerra e che diventi un unico paese e non diviso in due com’è adesso…” Poi Doumbia cambia subito argomento e parla dell’Italia: “Io ho capito che se ti comporti bene qualcuno te lo da un lavoro. Durante la scuola d’italiano mi sono comportato bene e l’insegnante mi ha trovato un lavoro…” Dombia ha lavorato come manutentore di macchine da caffè, poi l’azienda ha interrotto il rapporto, sembra per poche commesse. E’ la stessa risposta che ha avuto Traore, metalmeccanico per nove mesi, tra borsa lavoro e tirocinio. La crisi è pesante per tutti si sa, ma forse per ragazzi come questi lo è un po’ di più.

Ma loro non sembrano arrendersi. Come Saasha, per esempio, un giovane che sa il fatto suo. “Quello, – ci tiene a sottolineare – non è il mio vero nome ma uno pseudonimo formato dall’insieme di due nomi”. Saasha non si perde d’animo e da solo, cioè senza l’accompagnamento di qualche operatore, si è andato a trovare un corso di formazione professionale a Imola, peccato che poi ha scoperto essere a pagamento. Saasha ha 22 anni, uno sguardo arcigno e anch’esso molto determinato. Ha una moglie e un figlio in Somalia e la sua storia è un pò dura. Dopo un viaggio tortuoso, passando per il Kenya, l’Uganda, il Sudan, quando arrivò in Libia la prima cosa che gli successe fu quella di essere arrestato e incarcerato in una delle celebri galere di Gheddafi. Lì, tra violenze fisiche e psicologiche, vi rimase un anno. Quando, durante la guerra civile, le carceri furono aperte, Saasha, come tantissimi suoi connazionali, si rifugiò presso l’ambasciata somala di Tripoli. L’ambasciatore, al fine di fronteggiare l’invasione nella sede diplomatica, disse a tutti che non era in condizione di poter aiutare nessuno, poiché erano in troppi, quindi consigliò a tutti di scappare. Così Saasha s’imbarcò a Tripoli in un barcone, direzione Lampedusa.

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Anche lui ha fatto un’esperienza di lavoro, ma come operaio in Ducati, a lui però non l’hanno tenuto per un motivo diverso rispetto agli altri, perché ancora non aveva il permesso di soggiorno, ma solo la richiesta di protezione internazionale. Lui, come gli altri 18 sub sahariani di via del Milliario, ha ricevuto la protezione internazionale dalla Commissione territoriale di Bologna solo un mese fa. I 4 tunisini invece non hanno nessun tipo di riconoscimento, fino ad adesso, e per loro il 15 dicembre scadono i termini della permanenza in Italia, cioè saranno clandestini. “La cosa importante è trovare un lavoro, – conclude Saasha – solo così posso far venire qui mia moglie e mio figlio. Adesso non so cosa succederà, ma a mia moglie e a mia madre non voglio dire niente del 31 dicembre, non è giusto farle preoccupare, a preoccuparsi basta uno solo”.


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1 Comment

  • sembra che i centri di accoglienza non chiuderanno, però non accetteranno persone nuove e cercheranno di dimettere il maggior numero di ospiti possibile… però: in base a cosa viene fatta la scelta tra chi resta ospite e chi viene dimesso? intendo: ci sarà una direttiva, una circolare, un foglio di carta con le regole insomma. dove trovarlo? ecco il mio quesito. grazie a chi risponderà.

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