Integrazione e pregiudizi a scuola, quando a spaventare è la cultura


di Simona Hristian

LA PAURA DI CONOSCERE. Negli stessi giorni in cui negli Stati Uniti d’America veniva riconfermato presidente un rappresentante del “melting pot” statunitense, l’afroamericano Barack Obama, nel Vecchio Continente e, più precisamente, in provincia di Roma, a Ladispoli, città con oltre quarantamila abitanti (di cui il 10 % Romeni), “una decina di genitori” di una Scuola dell’infanzia protestavano e alcuni di loro “avrebbero addirittura richiesto il trasferimento dei loro figli in un altro plesso” a causa dell’introduzione del corso di Lingua, Cultura e Civiltà Romena (LCCR) tra le materie di studio della scuola per l’infanzia.

Attualmente, a un mese di distanza, il Preside comunica che “solo quattro bambini non vengono portati a scuola quando c’è il corso”. I motivi non sono stati esplicitati per iscritto “poiché la scuola dell’infanzia non è d’obbligo ed i genitori possono far assentare i figli senza alcuna necessità di giustificazione”. Sembra quindi che alla fine la situazione si sia normalizzata e l’esito dell’iniziativa sia positivo considerando che, secondo fonti attendibili, Ladispoli sembra essere l’unica città italiana nella quale tutte le scuole hanno richiesto di includere nel POF il corso gratuito LCCR.

L’IMPORTANZA DEI MEDIATORI CULTURALI. In quanto ladispolense di origine romena, ho letto con interesse i vari articoli usciti sulla stampa, i commenti e le opinioni dei miei concittadini, ma anche dei miei connazionali. L’aspetto che ha colpito maggiormente la mia attenzione e sensibilità di mediatrice interculturale che opera da diversi anni in ambito scolastico riguarda le incomprensioni dovute alla poca conoscenza reciproca e che portano a giudicare l’altro “diverso da noi” in base ai propri pregiudizi e stereotipi. Senza drammatizzare o generalizzare l’accaduto, considero che sia un’ottima occasione per riflettere sull’integrazione. Considero che sia giunto il momento di allargare gli orizzonti, di considerare i fenomeni locali in una ottica d’ensamble, come parte dei cambiamenti globali a cui assistiamo da un po’ di tempo (la libera circolazione di persone e merci in EU, le guerre, le disparità di ricchezza nel mondo ecc.). È necessario incominciare a prendere atto dell’inesorabile e l’irreversibile andamento del mondo e, di conseguenza, impegnarsi per la costruzione di una società futura che sarà sempre più multiculturale, che ci piaccia o meno.

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NON SOLO OSPITI. Nonostante l’Italia sia da molti decenni paese di immigrazione, le politiche di integrazione e l’opinione pubblica sembrano non essersi ancora accorte del carattere sempre più stabile della migrazione, continuando a pensare che i migranti rappresentino solamente dei “lavoratori-ospiti” che prima o poi torneranno nel loro paese e a trattare il fenomeno dando erroneamente rilevanza a termini quali “emergenza” e “sicurezza”. Per questo motivo ritengo che il vero problema sia la sottovalutazione del fenomeno migratorio e quindi dell’integrazione intesa come processo bidirezionale, uno sforzo da entrambe le parti (migranti e società ospite) per trovare un codice comune di convivenza.

OLTRE LA TOLLERANZA. Le politiche di integrazione che finora hanno avuto maggiore successo in Italia sono state quelle adottate in ambito scolastico anche se, più che d’integrazione, si parla di assimilazione. La priorità finora è stata quella di far apprendere la lingua italiana e, in alcuni casi, sono stati sollecitati degli interventi dei mediatori interculturali per facilitare il dialogo tra la scuola e le famiglie degli alunni non italiani. La differenza che quest’anno ha fatto nascere le polemiche nella scuola di Ladispoli è rappresentata dal fatto che il corso viene introdotto obbligatoriamente a tutti gli alunni della scuola dell’infanzia. Lo stesso corso esiste da diversi anni in molte scuole elementari e medie di Ladispoli, ma è facoltativo e rivolto innanzitutto agli alunni di origine romena. Dal punto di vista dell’integrazione, questa differenza è molto significativa. Rappresenta un primo passo verso l’accettazione dell’altro, andando oltre la tolleranza. Come diceva Pier Paolo Pasolini, “il fatto che si ‘tolleri’ qualcuno è lo stesso che lo si ‘condanni’. La tolleranza è anzi una forma di condanna più raffinata”. Inserire quindi un corso come quello oggetto della polemica nel POF rappresenta una scelta opportuna e lungimirante, una dimostrazione dell’impegno concreto nel processo di integrazione da parte di una delle istituzioni più importanti del Paese (la scuola). Sarebbe uno strumento utile per acquisire quelle conoscenze sulla cultura e la lingua di origine della maggior parte degli alunni stranieri presenti nelle scuole di Ladispoli, necessarie per facilitare la relazione interpersonale nelle classi multiculturali.

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Per arrivare all’integrazione è necessario un dialogo costruttivo che porti alla conoscenza reciproca, alla scoperta delle somiglianze oltre che delle differenze. Come dimostra la polemica nata a Ladispoli, questa comunicazione ancora non esiste. Per questi motivi, attualmente, la figura del mediatore interculturale andrebbe rivalutata e riconosciuta come figura chiave. Prendendo il caso specifico della scuola di Ladispoli, mi domando come sarebbero andate le cose se all’interno della scuola fosse stata presente la figura del mediatore interculturale, inteso come figura professionale addetta alla comunicazione tra scuola e genitori, come ausilio non solo linguistico, ma soprattutto culturale. In attesa che l’Italia riconosca l’importanza e la necessità della figura del mediatore, sarebbe auspicabile seguire il consiglio di Barack Obama, estratto dal discorso fatto in occasione dell’insediamento per il secondo mandato alla Casa Bianca: “Una buona regola è trattare gli altri nel modo in cui speri che loro trattino te”. Basterebbe questa semplice regola per assicurare una convivenza civile in una società sempre più eterogenea e complessa.


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