Migrante nei Cie, apolide, artista, “zingaro felice”: Antun Blaževic si racconta

di Simona Hristian

Antun Blaževic, in arte Tonizingaro, è una persona non facilmente “classificabile”, ogni tentativo di “etichettarlo” risulterebbe riduttivo. Cosmopolita, eclettico, Toni è il frutto della sua particolarissima storia di vita e delle sue origini rom. Attore protagonista e autore dei suoi spettacoli teatrali, mediatore culturale, autore di libri di prosa e poesia, vive in Italia da più di tre decenni. La sua natura “controcorrente” si intuisce già dalla motivazione che sta alla base della scelta del “nome d’arte”, “Tonizingaro”: “Mentre gli altri rom cercavano di nascondere la loro origine per paura di essere discriminati, io preferivo mostrarmi per quello che ero.” Nonostante non sia politically correct, preferisce chiamarsi “Zingaro” in quanto nella lingua romanes, il termine “Rom” significa “uomo” e considera che non ci sia coerenza: “La gente non mi tratta da uomo, quindi non ha senso che mi chiami così”.

La sua storia di cittadino del mondo iniziò con la nascita nella ex-Jugoslavia da madre bosniaca cattolica, gagè (non rom) e da padre rom ortodosso. Un decennio prima della caduta del Muro di Berlino, più precisamente il 17 gennaio 1981, nonostante la ”cortina di ferro”, decise di partire verso la Francia proprio il giorno seguente al suo compleanno, un modo originale di festeggiare i suoi vent’anni.

Partito da solo, attraversò a piedi il confine italiano, fermandosi inizialmente a Trieste per alcuni mesi: “In Italia arrivai per caso, doveva essere soltanto un Paese di transito, invece da allora non mi mossi più di qui”. Trieste è rimasta viva nella sua memoria soprattutto per un episodio: “Fu in questa città che incontrai per la prima volta in vita mia i neo-nazisti italiani. Mi trovavo in un parco, quando alcuni dei miei amici connazionali mi fecero notare che quel gruppo di ‘ragazzini’ italiani che si stavano avvicinando a noi erano dei ‘nazisti’. Pensai che fosse una battuta, visto che per me i nazisti erano quelli con elmetto ed uniforme, visti nei film sulla guerra mondiale”.

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Con la guerra dei Balcani e il nuovo assestamento geo-politico, si ritrovò senza più una nazionalità, come tutti gli altri nella sua stessa condizione. Il suo Paese, la Jugoslavia, non esisteva più perché frammentata in diversi Stati indipendenti. Quindi le sue origini divennero “un groviglio di nazionalità”, situazione che ebbe una serie di implicazioni a livello burocratico, motivo per cui decise di chiedere lo status di “apolide”, visto che nessuno dei Paesi sollecitati volle riconoscerlo come proprio cittadino. La decisione arrivò dopo essere passato anche per il centro di identificazione ed espulsione dove i migranti, “colpevoli” di non essere nella condizione di dimostrare la loro identità, vengono trattenuti in attesa di essere identificati ed espulsi nel loro Paese di origine. Per quanto riguarda lo status di rifugiato politico, non ha mai pensato di fare la richiesta: “Non mi sono mai sentito perseguitato”. Il fatto di non avere la cittadinanza italiana dopo più di tre decenni di permanenza lo fa sentire sollevato dal “ non dover votare”.

Il lavoro precario, la mancanza di una casa, condizioni comuni e frequenti con le quali si confrontano la maggior parte dei migranti (soprattutto quelli che non hanno un permesso di soggiorno regolare), lo portarono a passare circa 15 anni nei campi rom di Roma dove svolse anche il ruolo di mediatore culturale. In una delle manifestazioni di protesta contro gli sgomberi di un campo rom, conobbe Moni Ovadia. Per caso: “Come tutte le cose della mia vita che non ho mai programmato”. Questo incontro segnò l’inizio di un sodalizio professionale e di un legame affettivo che esemplifica scherzando: “Moni è l’unico ebreo che mi sopporta quando bevo”. Insieme scrissero e recitarono lo spettacolo teatrale realizzato da Moni Ovadia “Ieri e oggi, storie di ebrei e di zingari” che per circa 2 anni portarono in giro per i teatri italiani.

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La loro collaborazione continuò nel tempo, infatti Ovadia scrisse la prefazione del libro in prosa e poesia “Speranza” nel quale Tonizingaro affronta in maniera ironica e autoironica delle questioni complesse riguardanti i pregiudizi e gli stereotipi sui rom presenti nella società italiana. Nei suoi racconti, nelle poesie, così come negli spettacoli, porta delle testimonianze della quotidianità dei rom con la speranza di sconfiggere l’ignoranza e l’intolleranza che portano a percepire ancora oggi il loro mondo in modo negativo o soltanto folkloristico, semplificandolo e dimenticando lo stato di segregazione sociale in cui queste persone vivono in molti Paesi europei .

La sua autoironia non l’abbandona mai e anche durante l’intervista si è manifestata spesso, nonostante i temi affrontati. Un esempio è la battuta sugli anni del tour teatrale passati insieme a Ovadia che vengono sintetizzati in una battuta: “Immagina come poteva essere il nostro spettacolo: uno zingaro che recita insieme a un ebreo e per non parlare dell’assonanza dei nostri nomi Toni- Moni” .

Dopo questa prima esperienza che lo aiutò a “crescere professionalmente e personalmente”, realizzò con la sua compagna teatrale Theatre Rom vari spettacoli che lo videro protagonista insieme ad altri artisti e musicisti. Pochi giorni fa ha riproposto a Roma lo spettacolo “Zingaro felice” nel quale ha recitato accompagnato da un violinista e tra poco sarà a Napoli insieme ad un gruppo di musicisti greci. Scritti e interpretati da lui stesso, gli spettacoli di Tonizingaro prendono spunto dalla sua esperienza personale e affrontano temi vari che riguardano la vita in Italia.

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Se ancora non fosse chiaro il profilo del personaggio, l’incipit di uno dei suoi spettacoli può aiutare a comprendere: “Io stasera non sono venuto qui in mezzo a voi per farvi ridere o piangere, no cari miei, niente di ciò accadrà stasera, e poi con tutti ‘sti professionisti di politici che ci fanno piangere e ridere, io farei solo una brutta figura. Secondo voi, io sarei mai in grado di dire una barzelletta o una cazzata come Berlusconi, che vi potrebbe far ridere? O parlarvi dell’IMU e farvi piangere come lo fa Monti? O parlarvi di democrazia come lo fa Alemanno e che uno non sa se piangere o ridere, o entrambe le cose, piangere ridendo?”.

Nonostante l’ultima domanda dell’intervista fosse quella “classica” riguardante il futuro, la risposta non è stata altrettanto scontata: “Continuerò a vivere come prima, giorno per giorno perché come sempre nella mia vita, non faccio mai progetti. Non so cosa avverrà domani, quindi mi godo il presente”.


Moni Ovadia legge Antun Blaževic


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