Siria, Ricucci al Festival di Perugia: “Basta congetture, c’è un popolo che muore”

“Quando siamo atterrati a Ciampino la prima sensazione che abbiamo provato è stata di tristezza. Tristezza, perché eravamo diventati noi i protagonisti di una storia da raccontare. Ma noi siamo solo giornalisti ed eravamo andati in Siria per raccontare un’altra di storia, quella della Siria, quella della guerra. In qualche modo, per colpa nostra, ancora una volta la Siria è stata ignorata dai media, mentre noi siamo finiti al centro di un’attenzione che non volevamo”.

Parole piene di dignità, ma anche di frustrazione, quella che assale chi ama così tanto il proprio lavoro e non riesce ad accendere i riflettori su una realtà scomoda. Quelle di Amedeo Ricucci, giornalista Rai de “La Storia siamo noi”, rapito solo poche settimane fa da un gruppo di ribelli della Siria del Nord e, per fortuna, rilasciato dopo pochi giorni. Si è presentato al Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia per raccontare non il suo rapimento, quindi, ma gli spari e le bombe che ammazzano il popolo siriano. “Si possono fare mille analisi e congetture – racconta Ricucci – ma la verità è che da 3 anni il popolo siriano si è ribellato alla dittatura di Bashar Al Assad e c’è in corso una guerra civile che sta causando morte e distruzione, danni incalcolabili. Eppure, non se ne parla. La gente, intanto, lì continua a morire ogni giorno”. Una guerra che, come in Birmania, viene alla luce solo grazie alle nuove tecnologie, ai social network e al lavoro di freelance che vanno in prima linea a costo della propria vita.

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“Io ormai i comunicati di regime, in quanto tali, non li leggo neanche più – spiega l’inviato Rai – addirittura Al Assad nega l’esistenza di una rivolta popolare e ripete ormai da due anni che si tratta solo di gruppi terroristi esterni mossi da una regia occulta. Una tesi che non sta in piedi, del resto Assad negó anche l’invasione in Libano. I giornali – e conclude – devono fare di più, le notizie sono merci e ci si comporta come nei negozi di abbigliamento, che dopo due giorni cambiano vetrina. Della Siria, di tutte le guerre bisogna continuare a parlarne continuamente. Internet, per fortuna, ha una potenza enorme, che viene dal basso e va sfruttata”.

Ricucci è tornato a casa con le sue gambe. Chi, invece, ha pagato con la vita il proprio senso del dovere, il voler a tutti i costi fare al meglio il proprio lavoro è il fotoreporter francese Olivier Voisin, morto per le ferite subite durante un bombardamento ad Hamah, sempre in Siria, vicino al confine con la Turchia. Avrebbe dovuto partecipare anche lui al panel discussion di Perugia, ma non ce l’ha fatta. Al suo posto una sua cara amica, l’inviata del Tg5 Mimosa Martini, che ha ricevuto da lui l’ultima email prima di essere abbattuto. La Martini ha mostrato gli ultimi scatti di Voisin, fino alla prima esplosione di quel bombardamento che lo ha ferito a morte, un documento fortissimo che racconta in prima linea quel che sta accadendo in quegli aspri territori. ” In Siria non si combatte per strada – riporta la Martini – si va solo a colpo sicuro. Quattro ore di spari costano 20 mila dollari in munizioni, che, quindi, vengono risparmiate il più possibile. Olivier era un freelance e aveva bisogno di stare in prima linea, lì dove cadevano le bombe, altrimenti le grandi agenzie non avrebbero mai comprato le sue foto. È morto in un ospedale di Antiochia, in Turchia, pochi giorni dopo essere stato colpito, portato lì dall’unico soldato ribelle rimasto vivo in quell’attacco e che con lui aveva condiviso tutto: dalla fame al freddo, dalla speranza alla paura”.

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 Roberto Tortora


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