La vita dopo l’Emergenza Nomadi: intervista a Emil Costache, mediatore culturale rom

È notizia di questi giorni che la Corte Suprema della Cassazione ha sancito definitivamente la fine del periodo di “emergenza nomadi” che ha generato le schedature (anche dei minori), la costruzione di campi rom, gli sgomberi forzati ecc.

Abbiamo intervistato Emil Costache, romeno di origine rom che vive in uno dei campi della Capitale, per comprendere quali sono le conseguenze concrete di questa sentenza e approfondire la conoscenza della vita nei campi rom.

Emil, mediatore culturale ed educatore, potrebbe essere definito un “nomade” soltanto perché per diversi anni ha girato l’Europa in cerca di lavoro, prima di stabilirsi in Italia, 13 anni fa. In Romania e in altri Paesi dove è vissuto precedentemente, faceva una vita da stanziale, aveva un lavoro e una casa. Intervista di Simona Hristian

Cosa significa concretamente questa sentenza per i rom? Quale cambiamento porterà, secondo te?
Dichiarare lo stato d’emergenza in un Paese europeo nel XXI secolo dove vivono 150mila rom (dei quali più della metà lavora, abita in case e non fa parte di alcun programma di assistenza sociale) non ha portato nessun cambiamento né ai rom, né alle istituzioni e neanche agli Italiani. È stata solamente una manovra politica che non ha fatto né bene, né male. Così come questa sentenza non porterà dei cambiamenti. Si continuerà a vivere da esclusi. Un decreto di emergenza viene emesso solo in caso di calamità naturale, di una malattia contagiosa ecc. invece l’emergenza rom esiste da mille anni e durerà per ancora molto tempo.

Tu vivi in un campo rom a Roma mentre i tuoi fratelli che abitano a Bologna, vivono in una casa. Come spieghi questa differenza tra le varie zone d’Italia?
A Roma, come in altre grandi città italiane, la politica che riguarda i rom è fondata sulla premessa che i rom siano nomadi, ma la realtà è diversa. Sia prima di arrivare in Italia che dopo aver avuto l’opportunità di uscire dal campo, i rom vivono da stanziali. A Roma ci sono famiglie che hanno affittato delle case, ma per poter fare questa scelta devi avere lavoro. Inoltre, devi rinunciare alla tua appartenenza e presentarti come romeno per non avere dei problemi. Devi rinunciare ad ascoltare la musica rom, di indossare i vestiti tradizionali e molte volte non basta. Ad esempio, anni fa quando avevo uno stipendio, ho trovato un appartamento, ma i vicini si sono opposti quando hanno saputo le nostre origini e siamo dovuti ritornare al campo. Invece, i miei fratelli vivono a Bologna, lavorano come autisti e abitano in appartamenti. Il Comune li ha sostenuti per un periodo per poter pagare l’affitto e poi sono stati messi in condizione di poter provvedere da soli. Nelle città più piccole, i comuni investono sull’inserimento dei rom nel tessuto sociale, mentre nelle grandi città, i fondi vengono dati alle associazioni che gestiscono i campi rom. Inoltre, i miei fratelli non hanno avuto problemi per trovare lavoro, nonostante la loro origine, perché a Bologna guardano soltanto la motivazione per il lavoro.

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Come si vive in un campo rom? Quali sono gli aspetti positivi e quali quelli problematici?
Nel campo dove vivo manca l’acqua potabile da circa un anno, nonostante sia un campo autorizzato per il quale il Comune di Roma paga un affitto. Per il mio camper si spendono circa 1900 € e ogni mese io pago 50€ per l’elettricità al gestore che dovrebbe mettere a disposizione tutto il necessario. Succede invece che i ritardi nel pagamento da parte del Comune o altri problemi si ripercuotono sulle condizioni di vita degli abitanti del campo, di cui la maggioranza sono bambini. Con questi soldi si potrebbero pagare tre affitti: uno per la famiglia rom e due per le famiglie italiane. Sarebbe anche un modo di integrarsi, di socializzare con la popolazione italiana mentre adesso viviamo in un ghetto, isolati dal resto della società. Però non tutti i campi sono situati in zone marginali, così come la gestione è diversa da un campo all’altro. Alcuni gestori responsabilizzano i rom ospitati, coinvolgendoli nella gestione, ma esistono anche campi dove l’organizzazione e le condizioni non permettono l’autonomia e la responsabilizzazione dei rom. Per esempio, non possiamo portare personalmente i nostri figli a scuola. L’accompagnamento dei bambini a scuola con il bus toglie l’opportunità ai genitori di svolgere il loro ruolo e di relazionarsi con la scuola, con gli insegnanti, dato che sono gli operatori del campo a farlo al loro posto. Nei piccoli paesi e nelle cittadine dove i rom sono inseriti nel tessuto sociale, la situazione è diversa. Sono i genitori a curarsi degli aspetti pratici, burocratici ecc.

Tu li chiami ghetti ma la maggioranza delle persone pensa che siano luoghi adatti al modo di vivere rom.
Nel campo dove vivo non si può entrare senza una liberatoria del Comune di Roma e non c’è neanche la possibilità di ricevere visite (neanche i famigliari), mentre in alcuni campi ci sono degli orari quando è possibile ricevere ospiti. C’è un controllo all’ingresso del campo, dove l’ospite si presenta nell’orario di visita e chi lo ospita deve venire a firmare per conferma. La maggior parte dei rom vorrebbe uscire dal campo, ma ci sono anche dei rom a cui conviene vivere lì. Purtroppo per lasciare il campo devi avere un lavoro che ti permetta di pagare l’affitto.

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Nell’immaginario collettivo, i rom stanno in questi campi sporchi che non puliscono, non lavorano, vanno a chiedere elemosina o a rubare. Come si svolge la tua giornata tipo?
Nei campi vivono tutti i tipi di persone, ci sono anche quelli che rubano o che non lavorano, ma la maggioranza dei rom lavora, svolgono soprattutto l’attività di raccolta del ferro vecchio. Ultimamente, è nato un problema burocratico dovuto al fatto che una direttiva europea impedisce la raccolta di ferro senza il permesso della Regione e senza avere una cooperativa. La licenza per la raccolta del ferro viene data soltanto a 20 persone all’anno. Io mi alzo alle 6 o alle 7, in base alla giornata e al programma che ho. Lavoro anche nel fine settimana perché il lavoro precario di mediatore non mi permette di mantenere la famiglia e, per arrotondare, lavoro come giardiniere.

Molti pensano che i rom non vogliono mandare i figli a scuola. Tu lavori nel progetto di scolarizzazione, qual è la tua opinione?
Il progetto è iniziato 25 anni fa e pochissimi ragazzi arrivano a fare le superiori, al massimo le scuole professionali. Come si fa a continuare un progetto quando i risultati sono questi?

Secondo te, a cosa è dovuto questo fallimento?
Il progetto è sbagliato. Ci sono gli operatori che fanno tutto, negando così la genitorialità. Le responsabilità sono attribuibili alle istituzioni che hanno sempre fatto dei progetti senza considerare i bisogni e le esigenze dei rom. Non c’è una progettazione a lungo termine. Non si considera la possibilità di formare i rom in modo di trovare un lavoro che gli permetta di lasciare il campo. Basterebbe aiutarli a trovare un lavoro perché dopo penserebbero da soli a trovare casa e a gestirsi da soli. Poi c’è il fatto che i bambini non hanno la possibilità di inserirsi a scuola, arrivando sempre in ritardo e uscendo prima, non hanno modo di socializzare con i compagni. Dopo la scuola stanno insieme agli altri rom, non possono uscire o giocare insieme ai loro compagni di scuola perché i campi sono lontani dai centri abitati. Non possono neanche fare i compiti con gli altri bambini del campo perché non si possono riunire in una roulotte dove vivono 8-10 persone. Ci sono tante difficoltà. Quindi sono visti come diversi, sono messi in fondo alla classe e abbandonati a loro stessi. Molti non sanno né leggere né scrivere; arrivano alle medie senza conoscere neanche le tabelline. I compagni quindi li emarginano e li temono. Alla fine rinunciano, finite le medie. Si disperdono perché non si sentono appoggiati e rinunciano. Inoltre, le donne si sposano presto.

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Perché le donne si sposano presto?
Ti faccio l’esempio della mia famiglia: mia figlia grande – che è cresciuta in Romania e Francia – si è sposata tardi, invece la piccola – che è cresciuta nel campo – è scappata a 15 anni con un ragazzo, nonostante fosse brava a scuola e conoscesse tante lingue. Nel campo si subisce l’influenza della tradizione.

Quale sarebbe la soluzione?
Da una parte la cultura, l’educazione e dall’altra uscire dal campo, trovando la casa e il lavoro. Altre soluzioni non esistono. Con l’aiuto delle associazioni italiane e rom, prima o poi troveremo le soluzioni.

In futuro dove ti vedi?
In una casa, facendo una vita normale. Non rimarrò nel campo. Probabilmente tornerò in Romania, ma anche se rimarrò qui, starò in una casa e avrò un lavoro.

Grazie! Nais!


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