Per il New York Times i nostri Cie sono crudeli, “peggio delle carceri”

“Il Centro di Identificazione ed Espulsione, un complesso di detenzione nei sobborghi di Roma dove migranti illegali possono essere trattenuti per mesi prima di essere deportati, non è una prigione. Ma la differenza sembra essere principalmente una questione semantica. Alte recinzioni metalliche separano file di squallidi casermoni che vengono chiusi di notte, quando i cortili di cemento vengono illuminati a giorno. Ci sono telecamere di sicurezza. Alcune guardie indossano tenute antisommossa. I detenuti possono muoversi in aree designate durante il giorno, ma sono costretti a indossare ciabatte o scarpe senza lacci, in modo da non danneggiare se stessi o gli altri. Dopo una rivolta nella sezione maschile, oggetti appuntiti – come penne, matite e pettini – sono stati vietati”. Con queste parole un lungo articolo del New York Times, a firma di Elisabetta Povoledo, descrive la pessima realtà dei nostri Cie.

“Il centro, nella periferia di Ponte Galeria”, continua il giornale statunitense, “è uno degli 11 usati in Italia per trattenere le persone – alcune delle quali hanno vissuto in Italia per anni – che sono senza lavoro o permesso di soggiorno o i cui documenti sono scaduti. Le autorità dicono che i centri sono essenziali per regolare l’immigrazione clandestina e che sono secondo le linee guida dell’Unione europea”.

“Sono luoghi-non luoghi che non hanno interazione con la società italiana, che è a mala pena consapevole della loro esistenza”, ha dichiarato al NYT Gabriella Guido, coordinatrice nazionale di LasciateCIEntrare. “Sono terre desolate, politicamente e culturalmente parlando, che emergono nei radar nazionali soltanto quando scoppiano delle rivolte”.

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“Nei 15 anni da quando sono stati istituiti”, scrive la Povoledo citando il rapporto di Medu (Medici per i diritti umani), “i centri hanno dimostrato di essere inadatti a garantire dignità e i fondamentali diritti umani“. “In Italia la vita non è libera”, ha detto una 24enne nigeriana detenuta a Ponte Galeria. “Questo dovrebbe essere un campo, non una prigione. Siamo trattati come schiavi, ma io sono un essere umano. Voglio libertà”.

Qui tutto l’articolo del NYT


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