È il peso della libertà, quei ventisette chili di un sacco di iuta ricolmo di lettere e cartoline di attivisti riversate sul pavimento della sua casa al momento della liberazione da Ibrahim Sabar, difensore dei diritti umani incarcerato per aver denunciato le torture che le forze di sicurezza marocchine infliggono ai Saharawi nel Sahara occidentale.
È il suono della libertà, quello della voce di Nasrin Sotoudeh, avvocata iraniana membro del Centro dei difensori dei diritti dell’uomo creato da Shirin Ebadi, che chiama al telefono un ricercatore di Amnesty per avvisarlo di essere stata rilasciata dopo una lunga e travagliata vicenda giudiziaria e la prigionia iniziata nel 2010.
Schegge di vita e di speranza da due dei cinquantamila prigionieri di coscienza che dal momento sulla sua fondazione Amnesty International ha seguito, supportato, contribuito a liberare: sono alcune delle esperienze che ha voluto ricordare ieri Riccardo Noury, portavoce per Amnesty Italia, in un incontro con gli studenti del corso di Fotografia come Mediazione Culturale di Frontiere News (con docente Stefano Romano), spiegando lo spirito che muove gli oltre 3 milioni di attivisti di Amnesty nel mondo (in Italia sono circa settantamila) nel costante e quotidiano impegno di sensibilizzazione e di mobilitazione dell’opinione pubblica internazionale, attraverso campagne e appelli costantemente aggiornati che possano concretamente migliorare le condizioni di vita dei titolari dei diritti umani.
È il caso ad esempio della campagna che è stata lanciata sul piano nazionale e che ha proposto ai candidati prima delle elezioni politiche la sottoscrizione di un’agenda in dieci punti per la riforma dei diritti umani, richiedendo loro un impegno preciso su temi come l’immigrazione, il femminicidio, la situazione nelle carceri, la discriminazione delle identità di genere, la violazione dei diritti umani delle comunità rom.
Rispetto a questo Noury traccia un sommario bilancio: “Su alcune cose ci sono passi avanti, è stato approvato ieri dalla Camera il decreto sul femminicidio, che per quanto non eccellente rappresenta comunque un segnale di attenzione, così come in prima lettura un recente disegno di legge presenta numerosi difetti ma tuttavia accoglie la richiesta di considerare omofobia e transfobia come aggravanti nei crimini d’odio. Per altre cose siamo ancora ad un punto fermo”.
Noury fa riferimento, ad esempio, all’immobilità che ha caratterizzato la posizione italiana sulla tortura considerando che alla ratifica della Convenzione Onu contro la tortura non è seguita l’introduzione nell’ordinamento giuridico nazionale del reato così come definito e previsto dalla Convenzione: “C’è chi dice che non c’è bisogno del reato di tortura perché non esiste, perché ci sono già delle fattispecie di reato che lo coprono – scordandosi che la tortura è un reato tipico, specifico, dei pubblici ufficiali – perché se si introduce il reato di tortura si criminalizza tutta la polizia, perché se c’è un reato di tortura le indagini si bloccano perché chiunque dirà di essere stato torturato durante gli interrogatori. Negli ostacoli più suggestivi c’è stata una inaccettabile riscrittura del reato di tortura che non sarebbe un’inflizione di sofferenza o dolore fisico o mentale da parte di un pubblico ufficiale nei confronti di una persona privata della libertà personale, ma sarebbe tortura quella che si fa più di una volta, e che prevederebbe quindi più atti di violenza”.
Proprio la tortura sarà al centro di una delle prossime campagne globali promosse da Amnesty, dopo quella ancora in corso che riguarda l’impatto sui diritti umani delle aziende che lavorano soprattutto nel settore petrolifero (e che riguarda l’Italia per le attività dell’ ENI in Nigeria) ed insieme ad un campagna per la promozione e la difesa del diritto di autonomia nel gestire il proprio corpo. L’incontro con gli studenti del Corso di Fotografia è coinciso con la Giornata Mondiale contro la Pena di morte, “un espediente politico buono per deviare l’attenzione da altri problemi, per prendere scorciatoie piuttosto che affrontare disfunzioni di sistema da parte della giustizia e per prendere voti, arma del dibattito e della ricerca di consenso politico”, ed è stato utile anche per ripercorrere le tappe del lungo cammino abolizionista intrapreso da Amnesty, membro fondatore della Coalizione Mondiale contro la Pena di Morte istituita nel 2001 e comprendente oltre 120 organizzazioni provenienti da tutto il mondo.
Dalla prima campagna lanciata da Amnesty su questo tema, nel 1977, i paesi che hanno abolito la pena di morte per legge o nella pratica da 16 sono diventati 140, con una manciata di paesi di nazioni che compiono la maggior parte delle esecuzioni e nel 2012, mentre nelle Americhe, gli Usa sono stati gli unici a eseguire condanne a morte, nell’Africa sub-sahariana il fenomeno si è limitato a solo cinque paesi: Botswana, Gambia, Somalia, Sudan del Sud e Sudan ed in Europa, solo la Bielorussia continua a utilizzare la pena di morte.
Tuttavia nel corso del 2012 almeno 682 persone (esclusa la Cina che ha fatto registrare il più alto numero di esecuzioni insieme all’Iran, Iraq, Arabia Saudita e Usa) sono state messe a morte in 21 paesi e sono state emesse almeno 1.722 condanne a morte in 58 paesi: si tratta però di dati che riguardano solo i casi dei quali Amnesty International è a conoscenza con la possibilità che il numero reale sia certamente superiore. Per il 2013 l’appello lanciato da Amnesty riguarda in particolar modo l’area dei paesi caraibici, dove su 25 nazioni, 10 sono abolizioniste per legge, due nella pratica e ben 13 sono ancora mantenitori.
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