Gli chiedo se le loro famiglie sanno che sono qui e che stanno bene. Tutti mi rispondono di no. Nur mi dice che la sua famiglia abita in una zona dell’Afghanistan, Ghazni, circondata dai talebani e per lo più priva di connessioni telefoniche; Hadi sottovoce mi dice di aver perso tutta la sua famiglia, massacrata qualche anno fa dai kuchi talebani, non riesco nemmeno a dirgli che mi dispiace, ogni parola mi sembra superflua, ogni parola mi sembra troppo poco.
di Nicole Valentini
Conoscevo da tempo la storia e la situazione dei rifugiati e richiedenti asilo, ma quando attraverso gli amici Soheila e Razi Mohebi, registi rifugiati in Trentino, sono venuta a conoscenza che tre ragazzi afghani dormivano per strada da alcuni mesi, è emerso il mio atteggiamento naïf. Come è possibile, mi sono chiesta, che in una piccola e moderatamente ricca città come Trento, dei richiedenti asilo dormano per strada? All’ingenuità è susseguito lo sdegno. La rabbia, la tristezza e l’indignazione sono sentimenti umani, ma lasciano tutti il tempo che trovano.
Nur, Amir e Hadi (nomi di fantasia che utilizzerò per tutelare la loro privacy) sono tre ragazzi provenienti dall’Afghanistan; appartengono tutti all’etnia Hazara, una delle etnie maggiormente discriminate e perseguitate di questo Paese. Poco più che adolescenti hanno abbandonato il loro paese ed hanno iniziato il viaggio. A piedi e con mezzi di fortuna hanno attraversato il Pakistan, l’Iran, per arrivare in Turchia ed infine in Europa. Un viaggio che avrebbe fatto impallidire Ulisse, in cui la possibilità di morire è molto alta.
Incontro Nur lunedì, fuori dalla biblioteca comunale di via Roma, dove ogni tanto i ragazzi vanno il pomeriggio per scaldarsi un poco. Ho tentato di aiutarli a trovare una sistemazione per la notte, ma tutte le associazioni hanno risposto all’unisono: “Non c’è posto mi dispiace, siamo pieni”.
Nur appare il più serio, ti guarda con quello sguardo dolce ma grave di chi sta lentamente abbandonando ogni speranza. “Sei molto giovane” gli dico, mi guarda negli occhi e risponde: “Sì, ma sai tutto quello che ho visto e che ho vissuto…” si poggia una mano sul cuore ma non termina la frase, io annuisco, so già cosa vuole dirmi.
Mi dice che se l’Europa e l’Italia non vogliono o non possono accoglierli, allora che chiudano definitivamente le frontiere, che non permettano loro di entrare per poi rimabalzarli da un Paese all’altro come palline da ping pong o abbandonarli in mezzo ad una strada. Sarà la decima volta che sento questo discorso, ed è un discorso freddo, razionale di una persona che non ha più fiducia ed aspettative nei confronti di quest’Europa, terra di miraggi e false promesse.
Loro non vogliono carità, non vogliono compassione, vogliono dignità e la possibilità di iniziare a vivere. La prima forma di dignità è quella che si ottiene con il soddisfacimento dei propri bisogni primari in modo autonomo, senza mendicare di continuo aiuto, cibo e vestiti alle varie associazioni e cooperative, che per fortuna comunque esistono. Il primo passo verso l’inizio della loro vita da adulti invece, lo vorrebbero costruire giorno per giorno, intraprendendo un percorso unico e individuale che li porti all’autonomia e al perseguimento dei propri sogni.
Passo con loro il pomeriggio e poi li saluto per lasciarli andare a mangiare alla Caritas. Ci ritroviamo dopo qualche ora alla stazione dei treni per andare a Rovereto dove ogni giorno alle 19 in punto devono andare a mettere la loro firma al dormitorio in attesa che un posto si liberi, ma anche quando ciò avviene, sono poche le notti che possono trascorrere all’interno della struttura. Uno di loro mi chiede se ho fame e mi offre un frutto, l’unica cosa che ha.
Gli chiedo se le loro famiglie sanno che sono qui e che stanno bene. Tutti mi rispondono di no. Nur mi dice che la sua famiglia abita in una zona dell’Afghanistan, Ghazni, circondata dai talebani e per lo più priva di connessioni telefoniche; Hadi sottovoce mi dice di aver perso tutta la sua famiglia, massacrata qualche anno fa dai kuchi talebani, non riesco nemmeno a dirgli che mi dispiace, ogni parola mi sembra superflua, ogni parola mi sembra troppo poco.
Quanti ragazzi come loro vivono per le nostre strade? Nascosti alla nostra vista, cacciati dalle stazioni e persino dai parchi, affinché Trento assomigli al migliore dei mondi possibili, affinché non si gridi al degrado. L’unico degrado che vedo io è quello delle nostre coscienze, afflitte da una rinuncia a priori, da un fatalismo pessimista, per il quale tanto alla fine non cambia nulla e comunque non è nostro compito fare in modo che qualcosa cambi. Se per cento persone che si indignano ce ne fossero cinquanta disposte ad agire, di persone che dormono per strada non ce ne sarebbero quasi più. Anche il semplice parlarne è fare qualcosa. Qualcuno potrebbe venire a conoscenza della situazione e decidere di portare dei vestiti o del cibo a queste persone, o semplicemente andare a parlare con loro, ad ascoltare la loro storia, per fargli capire che non sono abbandonati a loro stessi, che esistono ancora. Qualcun altro potrebbe scrivere degli articoli o una lettera al giornale. Non è solo un dovere delle istituzioni, è un dovere di tutti coloro che sanno portare alla luce queste problematiche ed intervenire ognuno nel proprio piccolo e secondo le proprie possibilità.
La sera arriva ed è molto freddo, il vento mi gela le mani. Li guardo e porgo loro le mie scuse, “ho fallito, mi dispiace. Ero sicura che sarei riuscita a trovarvi un posto per dormire”, “non preoccuparti per noi, siamo abituati”, dice Nur. “Questa è la vita” mi dice Amir. Vorrei dirgli che no, questa non è vita e che no, non smetterò di preoccuparmi per loro, perché dopo averli conosciuti, lo sdegno si è trasformato in tristezza e frustazione, ma anche in ammirazione per questi ragazzi così dolci e gentili che mi hanno dato tanto pur non avendo nulla.
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