12 anni schiavo, la ricerca della libertà al netto della retorica hollywoodiana

di Monica Ranieri

Non di eroismi, non di parabole moraleggianti o sentimentaliste, sono protagonisti i personaggi che Steve McQueen predilige mettere in scena: umanità nude, abbandonate a se stesse, scarne, essenziali, che esplorano attraverso la loro fisicità il valore della libertà, che inscrivono sulla loro pelle un agognante e sofferto anelito di dignità, resistenza e riscatto precluso dal sistema che li imprigiona. Cornici completamente differenti, irriducibili le une alle altre, in cui però a risaltare è sempre la solitudine dell’uomo di fronte ad un potere coercitivo imposto od autoimposto e la sua sopravvivenza in situazioni estreme. La fisicità che Bobby Sands in “Hunger” costringe alla privazione attraverso il digiuno in carcere, Brandon Sullivan all’eccesso attraverso la dipendenza sessuale in “Shame”, viene ancora una volta eletta a chiave di lettura della realtà in “12 anni schiavo”, attraverso l’abuso che Solomon Northup subisce del suo corpo, considerato meramente merce, anello, fragile e sofferente, di un sistema economico e produttivo che tutto riconduce a sé componendo una realtà deformata e deformante. Nessuna retorica, nessuna psicologia manifesta e rivelata, solo la verità dell’essere umano che con il suo corpo ci mostra se stesso e la sua lotta.

La centralità del corpo che assume su di sé la violenza, ed insieme la resistenza a questa violenza, non è mai ricerca morbosa o sensazionale: si tratta, semplicemente, di arte. Del modo in cui McQueen crede che il cinema possa essere arte, trasformando una narrazione nella sua necessaria ed ineludibile visualizzazione, attraverso scelte estetiche che trascendono la narrazione stessa per immergerci in un’esperienza. Un’esperienza contestuale, e resa ottimamente nella storicità della sua contingenza, ma universale, e ancora oggi attuale. Non di solo razzismo si tratta, non di sola schiavitù, e non di sola tortura. Si tratta di quanto l’umanità può resistere alla sua negazione da parte di un altro essere umano. E del sistema che altri esseri umani sostengono, o, parimenti colpevoli, accettano come dato di natura. E la mano del regista, riconoscibile ma mai autoreferenziale o autocompiaciuta, non fa che esaltare questa esperienza, mette la sua sapienza al servizio del racconto, si integra con esso in una costruzione asciutta, severa, implacabile, di fronte alla quale non riusciamo a voltare lo sguardo. Che ci incatena insieme a Solomon e ci costringe a guardare. Questo è il lavoro del cinema, il lavoro dell’arte.

UN TASSELLO NECESSARIO. Girato con un budget modesto, in 35 giorni e una telecamera, negli scenari reali delle piantagioni della Lousiana, e senza la garanzia di una distribuzione alle spalle, “12 anni schiavo” è un tassello necessario, una risposta severa, serrata, compiuta su tre fronti, e la sua forza deriva dall’includerli e integrarli senza sbavature o ambiguità. Il film appare infatti quale perfetto terzo movimento di un discorso incentrato fondamentalmente sull’intreccio tra libertà, potere ed umanità che McQueen elabora come artista, ma è insieme il terzo grande tentativo in pochissimo tempo della cinematografia statunitense di riportare a galla una pagina troppo a lunga rimossa dall’elaborazione della coscienza collettiva, quella che riguarda la schiavitù, dopo il lodevole ma ancora troppo “morbido” Lincoln e l’ironico ed irriverente “Django”. E infine risulta essere il brillante compimento di un lento lavoro di valorizzazione del racconto originale che Solomon Northup pubblicò con dimenticato successo nel 1853, testimoniando come, da cittadino libero dello stato di New York, venne ridotto con l’inganno in schiavitù e condotto a lavorare nelle piantagioni della Lousiana fino alla difficile conquista della libertà avvenuta 12 anni dopo. Il suo non fu un caso eccezionale: dopo che il Congresso degli Stati Uniti aveva vietato l’importazione degli schiavi nel 1808, la sopravvivenza del sistema economico del sud fu legata anche al rapimento di numerosi uomini di colore liberi, che in rarissimi casi riuscirono a dimostrare la propria identità ed affrancarsi dalla schiavitù. Solomon Northup riuscì nell’impresa, e, diventato sostenitore della causa abolizionista, consegnò ad un manoscritto la trasmissione delle sue memorie. Nonostante il lavoro di ricostruzione storica negli anni ’60 da parte di Sue Eakin e Joseph Logsdon, culminato nella pubblicazione di “Twelve Years a Slave—And Plantation Life in the Antebellum South” e un film tv del 1984 diretto da Gordon Parks “Solomon Northup’s Odyssey” la storia di Solomon era ignota ancora al grande pubblico. Ignota allo stesso McQueen, che l’ha scoperta solo casualmente grazie alla moglie mentre stava lavorando al soggetto del film insieme allo sceneggiatore John Ridley. Una scoperta folgorante, non solo per la qualità della narrazione, ma anche per il punto di vista inconsueto. Northup non è uno schiavo qualsiasi. E’ un afroamericano libero, istruito, con una posizione rispettabile, una moglie e dei figli, improvvisamente privato della propria identità e venduto come schiavo: la sua è una solitudine assoluta nel sistema, rispetto ai bianchi che lo hanno creato, e ai neri che lo stanno subendo. Un’angolazione ideale per fornire la misura dell’alterazione dei rapporti umani, del linguaggio, in un sistema che si fregia dell’avvallo della legge dell’uomo e perfino di quella di dio, per giustificare l’abuso dell’uno sull’altro. E anche nel rispetto e nell’aderenza al punto di vista, McQueen sembra non aver sbagliato, se Henry Louis Gates, Jr, consulente per il film ed eminente studioso di storia afroamericana ha definito “12 anni schiavo” la più accurata ricostruzione del sistema della schiavitù dal punto di vista di uno schiavo”. Una ricostruzione, certo, ma non didascalica né accademica, e neanche studiata a tavolino per accattivarsi le simpatie dell’Academy (che pure ha candidato il film a nove premi Oscar). E, paradossalmente è proprio questo che rende ancora più sorprendente e emozionante la notizia che la Fox Searchlight ha recentemente raggiunto un accordo con Penguin Books e con la National School Boards Association. per dotare ogni liceo pubblico di copie del dvd e dell’autobiografia di Solomon Northup.Non solo memoria, ma scottante attualità, però. Ed infatti, per quanto riguarda i nostri lidi, non è un caso che l’uscita italiana sia stata patrocinata da Amnesty International: “la storia di Solomon Northrup si collega a quella di tanti uomini e tante donne il cui lavoro è sfruttato in condizioni estreme, nel XXI secolo, in molti paesi”.

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UMANITA’ E IDENTINTA’ DA PRESERVARE. Insieme all’accurata ricostruzione storica dei costumi e degli ambienti, alla lirica e nel contempo impietosamente naturale fotografia di Sean Bobbit e al montaggio di Joe Walker, la scrittura di Ridley aderisce all’asciutto spirito di urgenza e verità che emana dalle pagine di Solomon: ogni dettaglio delle nefandezze subite e osservate viene rivelato. Una stretta aderenza al testo è osservabile anche nella restituzione dei dialoghi, che riprendono il tono ed il linguaggio dell’epoca, sebbene il doppiaggio italiano non riesca a rendere pienamente l’effetto. Una grande cura del sound design con numerosi ponti sonori che legano una scena all’altra e sapienti accorgimenti narrativi, qualche lieve licenza rispetto alla narrazione originaria, ricercatezze ed eleganze nella scelta delle inquadrature e i soliti piani sequenza alla McQueen, l’alternanza di stralci temporali differenti, contribuiscono da un lato a conferire ritmo e coerenza alla narrazione e dall’altro a sostenere paradossalmente lo spaesamento e lo scandalo di un’identità privata del suo passato, della sua essenza, a partire dal nome, che Solomon dovrà fin da subito dimenticare sotto la sferzata delle legnate. Ogni elemento che possa riconnetterlo alla speranza di un’umanità gli viene negato: come la camicia ridotta a brandelli dalle frustate. Non si rassegna Solomon, lui che non vuole sopravvivere, che vuole vivere: “Me l’ha data mia moglie”. Ma non ha importanza, non è che uno straccio, da buttare via, insieme a tutto ciò che egli era. Ugualmente la donna che verrà separata dai suoi figli e condivide con Solomon la cella per breve periodo sarà invitata dalla moglie del primo, quasi accondiscendente padrone, William Ford, a non piangere, perché dopo essersi confortata con un pasto dimenticherà presto i suoi figli. Idealmente, le grate da cui vediamo Solomon gridare aiuto, disperato ed incredulo, all’inizio del suo percorso di perdita forzata di se, nei bassifondi di una indifferente Washington corrispondono quasi alle pale dell’imbarcazione che lo traghetta verso la sua nuova vita, di cui sembra imparare a malincuore e tuttavia sempre timorosamente le regole, e alle canne delle piantagioni in cui la cinepresa penetra e si perde a più riprese: sono le cortine di indifferenza, di omertà, attraverso cui Solomon, e ora noi insieme a lui, dobbiamo essere condotti. Per scoprire abissi in cui l’uomo può relegare se stesso nel delirio di onnipotenza celebrando la propria intima e sostanziale fragilità emotiva e psichica (il riferimento è allo psicotico Epps), o in cui può agitarsi atteggiando compassione senza però avere il coraggio per infrangere il sistema (William Ford). E quindi per capire, come direbbe McQueen, a che punto siamo nel definire la nostra umanità. Umanità che Solomon dovrà imparare a difendere nella sopravvivenza. Nello sforzo, estenuante, di un corpo legato ed immobile, sospeso, che con sofferenza continua cercare con le punta dei piedi, nel fango, un contatto che non sarà ancora mai vita, ma promessa di un altro giorno in cui non cedere. Degli infiniti modi in cui quell’umanità può essere spezzata e dei modi in cui in può tentare di riemerge è emblema quel violino che eleva Solomon e lo contraddistingue rispetto agli altri suoi compagni di schiavitù: su quel legno levigato inciderà i nomi dei suoi familiari, e quel legno deciderà di distruggere dopo essere stato costretto a frustare Patsey, l’oggetto di una passione malata e controversa del secondo, folle, padrone Epps. La musica lo accompagna nell’aggrapparsi ad un’identità preservata prima, e negata poi, per ricondurlo, riluttante, ma con il cuore ribollente lacrime e dolore, alla sua nuova identità di schiavo che intona un toccante e vibrante canto funebre insieme a tutti gli altri schiavi.

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NONOSTANTE BRAD PITT Nella sua sobrietà e schiettezza “12 anni schiavo” è, tra l’altro, un film ricco di memorabili scene, tutte animate da una grande direzione degli attori perfettamente all’altezza ciascuno del proprio ruolo (ottime le prestazioni del protagonista Chiwetel Ejiofor, e di Michael Fassbender nel ruolo di Edwin Epps, così come sorprendente è stata la rivelazione di Lupita Nyong’o che impersona Patsey e preziosi i contributi di Paul Dano nel ruolo del pericolosamente irascibile sovrintendente John Tibeats e Paul Giamatti in quello del mercante di schiavi Theophilus Freeman. Probabilmente solo Brad Pitt in questo caso risulta essere più incisivo come produttore che come attore), e tutte perfettamente incastrate a definire l’odissea esistenziale di Solomon.


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