Sbatti il burqa (che non c’è) in prima pagina

di Luca Bauccio

«Mi sono sentita umiliata… quando è accaduto ho pensato che nulla sarebbe stato come prima e infatti tutto è cambiato…». Così Rassmea Salah, una delle protagoniste del docufilm “Al Qaeda! Al Qaeda! Come fabbricare il mostro in tv” racconta la sua esperienza di presidente di seggio in una città del nord Italia. Nel 2008 Rassmea, una giovane italo-egiziana, musulmana, viene scelta come presidente di seggio. Il giorno delle elezioni un giornalista di un tg nazionale si presenta al seggio con telecamera al seguito chiedendole un’intervista. Rassmea, che indossa l’hjiab, nega l’intervista: «Sono una presidente di seggio, non posso rilasciare interviste durante le operazioni di voto». Il giornalista scompare e tutto sembra finito.

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Ma nella pausa pranzo Rassmea, insieme a qualche centinaio di migliaia di italiani, guardando il tg scopre che in un seggio di una tal città a fare da presidente non c’è una giovane laureata con madre italiana e papà egiziano, ma una donna musulmana con “il volto coperto”. Una musulmana che “fa discutere”, che si “nega alle telecamere”, che “sfoggia” il velo islamico, che sfregia – con il suo volto coperto – la democrazia e il rito che per eccellenza la compie: il voto. Seguono interviste agli elettori; una donna indignata quasi urla: «Mi sembra scorretto! Mi sembra scorretto!» Un giovane, angosciato, mima con le mani la condizione di copertura del volto e si sfoga: «Mi dà un’idea di tutto coperto!» Un altro si appella alla Costituzione! Il conflitto è servito: lo Stato sceglie come presidente di seggio una donna con il volto coperto, Rassmea Salah, l’islamista che si nega alle telecamere, che non crede abbastanza nella democrazia.

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L’islamizzazione dell’Italia è oramai una realtà documentata per i telespettatori di un’ordinaria giornata di voto: donne con il burqa messe a identificare i colonizzati cristiani che si recano, vittime sacrificali di un inutile rito, al voto. Che fare dunque? È il giorno delle elezioni, non ci sono molte altre alternative.

Il medium conosce bene l’incantesimo: dopo il servizio Rassmea è costretta a fronteggiare le persone inferocite che si sono recate al seggio e protestano contro quella donna con “il volto coperto”. Viene salvata dalla Guardia di Finanza, come racconta nel docufilm, paternamente accorsa a fare da barriera tra lei che aveva solo l’hjiab, un velo attorno alla testa, e loro, i cittadini elettori che strepitavano e protestavano contro la presidente di seggio con il burqa.

Il burqa, però, né c’era né si vedeva, ma era come se ci fosse. Rassmea aveva gli occhi, la bocca, il naso, la fronte e le guance libere, riconoscibili, splendenti della sua giovane età; ma l’artificio del medium era più forte, l’interpretazione dei fatti contava più dei fatti, la maschera più della persona, la realtà del servizio era più vera della realtà stessa. Recita un vecchio modo di dire che “ogni diceria ha il suo pubblico”.

La diceria dell’islamizzazione, della resa dell’Occidente all’invasione degli islamici, aveva trovato nel finto caso della presidente di seggio con il volto coperto il suo pubblico. Un pubblico credulo, desideroso di riaffermare la propria esistenza esclusiva, stregato e reso funestamente vivo dal presagio superstizioso della propria morte. Ci sono nella vicenda raccontata due fili che corrono paralleli: c’è il filo di Rassmea che indossa il velo e va a fare la presidente portandosi dietro la sua identità, e c’è quello di chi non è interessato a chi sia, cosa faccia, cosa voglia Rassmea, ma solo a cosa può essere utile il suo sacrificio.

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Rassmea e i suoi “carnefici” curano entrambi la propria identità. Rassmea la afferma, la normalizza, la rende visibile attraverso la contestualizzazione sociale e istituzionale della sua persona, tutta intera. Prendere o lasciare, non ci sono mediazioni né precauzioni che possano giustificare un abbandono, una deroga che sarebbe solo sconfitta, oblio, tramonto. Sa che il suo velo potrebbe diventare il pretesto dell’attacco, dell’arrembaggio della scialuppa islamica sulla quale ha collocato la sua vita e la sua identità. Lo sa e non la abbandona, anzi proprio per questo vi resta ben afferrata. Dall’altro lato il cittadino che tiene il gioco alla narrazione del servizio si immola anche lui alla causa della sua identità. Un’identità che non è somma, definizione, cristallizzazione di una “storia sociale” della persona. È sottrazione, residuo, scarto simbolico e nostalgico. La sua identità è ciò che rimane dell’eliminazione di ciò che non si è. Questa procedura – anticamera per l’estinzione di qualunque società – parte da un assioma: io sono non altro. Non sono musulmano, non sono straniero, non sono moschee e minareti, non sono hijiab, e tante altre cose. Dunque sono io, e la mia identità è data proprio dalla esclusione di una possibilità dialogica e relazionale di ogni altra opzione identitaria. Rassmea è una italiana per accrescimento: musulmana, figlia di una coppia italo-egiziana, con il velo ma legata alle tradizioni laiche italiane, con esperienze all’estero ma che appartiene alla sua Italia, trilingue che non rinuncerebbe mai a parlare l’italiano.

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L’altro invece non sa più chi è. Né cattolico, né italiano, né cosmopolita, né ricco, né povero, cerca un equilibrio nello squilibrio permanente di un conflitto fittizio non tra identità sociologicamente separabili e contrapponibili ma tra irrealtà che hanno il loro momento costitutivo nient’altro che nell’atto di affermazione. Affermo, anzi denuncio, l’islamizzazione, le presidenti di seggio con il burqa, le moschee colme di terroristi. Dunque esisto. C’è, in questa azione, quasi la disperata ricerca di una realtà individuale e collettiva che si è smarrita e di cui non ci si sente più artefici.

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